INCUBO SIRIA

March 27, 2023
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Cosa resta dell’inferno siriano

Spenti i riflettori sulla Siria, alle spalle delle telecamere andate via c’è un Paese condannato ancora a subire il suo inferno

Per diversi anni il mondo ha visto quasi in diretta in che modo la Siria si è progressivamente trasformata in un autentico inferno. Le prime immagini delle città distrutte nel 2012, la crisi dei profughi del 2015, l’avvento dell’Isis e del califfato hanno fatto percepire la distruzione di un intero Paese, considerato stabile fino al 2010, causata dalla guerra. Oggi di Siria si parla molto poco. L’inferno però è rimasto. In primis perché la guerra non è finita. E poi perché lì dove non si spara più e lì dove terroristi e islamisti sono stati allontanati, è ancora impossibile ricostruire. Ci sono infatti altre bombe, di natura politica, che rendono la Siria un Paese infernale. Dalle sanzioni fino alla “partita a scacchi” ancora in corso tra le grandi potenze straniere impegnate sul campo. Tutti elementi che, a distanza di 11 anni dall’inizio del conflitto, contribuiscono giorno per giorno ad allontanare la normalità da Damasco, Aleppo, Homs e da tutte le altre città siriane.

Quelle “sanzioni dimenticate” che uccidono più delle bombe

C’è stato un tempo in cui in Europa, oltre a parlare delle operazioni militari, si potevano leggere articoli sugli effetti deleteri delle sanzioni. Misure imposte subito dopo l’inizio delle ostilità in particolar modo dagli Stati Uniti dall’Unione Europea e rinnovate, con cadenza annuale, dal 2013 in poi. L’intento ufficiale è sempre stato quello di procurare danni al governo siriano e a quell’apparato di potere guidato dal presidente Bashar Al Assad accusato, a torto o a ragione, di reprimere il suo stesso popolo. A prescindere da ogni valutazione relativa al capo dello Stato siriano, la cui permanenza è comunque stata legittimata dalle avanzate dell’esercito di Damasco coadiuvato dalla Russia a partire dal 2015, le sanzioni stanno danneggiando unicamente la popolazione.

In piena pandemia nel 2020 alcune associazioni umanitarie hanno lanciato petizioni per la rimozione delle misure contro Damasco. Tra queste anche il gruppo cattolico New Humanity, la cui istanza ha destato clamore anche per la firma, tra gli altri, dell’ex presidente della commissione Ue Romano Prodi. Le sanzioni però anche quell’anno sono state rinnovate, così come anche nel 2021 e nel 2022. Il tutto nel silenzio acuito dall’impopolarità del conflitto, spinto dalla guerra in Ucraina nelle pagine di rincalzo di giornali e telegiornali. Forse in pochi oggi ricordano che le sanzioni stanno continuando a colpire in modo pesante il popolo siriano.

Spenti i riflettori, rimangono milioni di poveri bisognosi di cure sempre meno possibili e di generi di prima necessità sempre più carenti. A mancare è anche la possibilità di investimenti, da queste parti più che mai importanti per avviare la ricostruzione. A Damasco, così come in tutti i capoluoghi di provincia siriani, eccezion fatta per Idlib, la guerra non c’è più. Ma la gente continua a scappare perché impossibilitata a ricostruire casa, ad avere lavoro e reddito per tornare a una vita serena.

Una normalità lontana da raggiungere

C’è stato un momento in cui passeggiare per Aleppo era impossibile. La città dal 2012 fino al dicembre 2016 è stata divisa in due: una parte controllata dal governo, l’altra in mano a gruppi di opposizione legati soprattutto all’ex fronte al Nusra e a movimenti jihadisti. Uscire di casa nelle zone governative voleva significare rischiare di beccarsi missili artigianali, ordigni di ogni tipo, a volte fabbricati anche con l’uso di bombole a gas, sparati dall’altra parte del fronte. Al tempo stesso, provare anche solo ad andare a fare la spesa nei quartieri controllati dagli islamisti esponeva le persone ai bombardamenti dell’aviazione russa e siriana. Oggi tutto questo non c’è più. La battaglia di Aleppo si è conclusa nel dicembre del 2016 con la riconquista da parte dell’esercito di Damasco dell’intero territorio. Adesso è possibile passeggiare e girare per strada senza lo spettro di un ordigno che piova alla gente sulla testa. Ma non si può parlare di normalità.

Aleppo è solo un esempio. Analogo discorso è possibile farlo per Damasco, dove anche l’Isis a un certo punto ha fatto la sua comparsa, per Homs, per Deir Ezzor, per Raqqa, per Dara’a e tutte le principali località del Paese. Le varie avanzate governative hanno confinato gli scontri in poche enclavi del territorio siriano, ma questo non ha coinciso con il ritorno alla normalità. “Sì, si costruisce, qui ad Aleppo ci sono isolati dove l’aspetto cambia giorno dopo giorno – commenta al telefono Fadi, un ragazzo aleppino per lungo tempo in Italia – ma ad esempio lì dove la mia famiglia aveva il suo negozio di saponi e dove sono cresciuto è un cumulo di macerie. Ci passo ogni giorno e dico a me stesso che forse è questa la nuova normalità della Siria”. Parole e toni che sanno quasi di rassegnazione oppure di abitudine a una guerra che non è più “emergenza”, andando avanti da 11 anni.

Da Homs arrivano i racconti di un macabro mercato della prostituzione minorile indotto da una povertà dilagante in grado di inghiottire nell’imbuto della storia decine di ragazze. Guerra dimenticata vuol dire anche questo: spegnere i riflettori da un territorio impossibilitato a ripartire e condannarlo a un silenzio che infligge alla società più danni delle granate.

Una partita a scacchi lontana dai riflettori

La Siria vive un paradosso destinato forse a bloccarla per molto tempo ancora. Da un lato c’è un vincitore, ossia l’esercito regolare aiutato dai russi e dagli iraniani, dall’altro però c’è un conflitto non ancora chiuso del tutto e che viene alimentato dalla sfida tra le potenze internazionali impegnate nel Paese. Il territorio siriano è diviso in almeno tre sfere di influenza. C’è quella russa per l’appunto, estesa nella parte occidentale lì dove le truppe di Damasco aiutate da Mosca hanno ripreso il controllo delle principali città. C’è poi quella Usa, con le forze di Washington presenti ancora nell’area delle riserve di petrolio a est dell’Eufrate, lì dove sono arrivate durante gli anni della guerra all’Isis e del sostegno all’Sdf, ossia la milizia filocurda che controlla buona parte della Siria orientale. C’è infine l’influenza turca a nord, nelle zone dove Ankara ha piazzato, in ottica anticurda, le proprie milizie e dove c’è ancora la presenza, specialmente nella provincia di Idlib, dei gruppi legati all’ex Fronte Al Nusra.

La Siria tornerà come un tempo?

Difficile oggi dire se e quando la Siria si lascerà alle spalle il suo inferno dimenticato. Non ci sono solo città distrutte ed economie ferme a causa delle sanzioni. Così come non ci sono soltanto giochi tra potenze a pesare sul futuro dei siriani. Il problema è anche di natura sociale. Nelle città ancora ridotte in macerie dovranno convincere vincitori e vinti della guerra, perseguitati e perseguitanti, genitori che hanno perso i figli nelle battaglie e sostenitori di chi, negli anni più bui, sgozzava le teste ai soldati. Ricomporre il puzzle siriano richiederà lavoro e tempo. Ma soprattutto richiederà l’effettiva fine della guerra. Un conflitto dimenticato il cui lascito potrebbe essere tra i più pesanti di sempre. 

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