America LOBBY

July 2, 2023
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I PADRONI DELLA POLITICA USA, la Republica degli OLIGARCHI Il sistema politico americano è gestito da una ristrettissima élite fondata sulla ricchezza e radicata nelle grandi famiglie. Il Congresso è centrale, le lobby pure, la Casa Bianca molto meno. È ora di riformare l’assetto ideato dai padri fondatori. 1. Nell’estate del 1787 la segretezza che circondava i lavori della convenzione di Philadelphia era divenuta insostenibile anche per gli abitanti del Nuovo Mondo, che pure non erano usi ricevere spiegazioni dai loro governanti.

Al termine dell’assemblea la signora Powel, che fuori dal cancello della Independence Hall attendeva notizie, si rivolse a Benjamin Franklin per sapere quale forma costituzionale avrebbero assunto gli Stati Uniti d’America. «Dottore, che cosa avremo allora? Una repubblica o una monarchia?», chiese con trepidazione. Voltatosi di scatto, Franklin la fulminò con una risposta smaccatamente paternalistica: «Avremo una repubblica, signora, se sarete in grado di mantenerla»

La dichiarazione tradiva l’approccio dei padri fondatori (framers). Nelle intenzioni originarie, l’America non doveva essere una democrazia – la parola non appare mai negli articoli della costituzione – ma una repubblica. Non solo per il fascino irresistibile dell’Antica Roma. Il termine greco demokratía richiamava «la diretta e pericolosa» incarnazione del governo da parte del popolo. Gli Stati Uniti invece sarebbero stati guidati da un gruppo di elitisti illuminati che, prestati solo temporaneamente alla politica, avrebbero amministrato la cosa pubblica senza lasciarsi traviare dalle passioni. E avrebbero perduto la libertà solo se la popolazione avesse imposto la propria volontà alla classe dirigente, alterando l’architettura istituzionale.

La politica doveva essere appannaggio di pochissimi letterati, selezionati per censo quale elettorato attivo e passivo. Il feticcio della rappresentatività era il diaframma da inserire tra il lucido perseguimento dell’interesse pubblico e la cieca umoralità delle masse. Il presidente sarebbe stato scelto indirettamente, da un collegio elettorale che si riuniva in semiclandestinità. La stessa idea di indire elezioni esclusivamente di martedì, il giorno che precedeva il mercato, doveva scoraggiare la cittadinanza dall’interessarsi alle questioni pubbliche. Un distacco che avrebbe reso immune la nazione dalla violenza che sconvolgeva l’Europa. I propositi erano talmente palesi che, inviato nel Nuovo Mondo per studiare il sistema penale, quarant’anni dopo l’aristocratico francese Charles-Alexis-Henri Clérel de Tocqueville sposò senza esitazione il sentire dei framers, indicando «nella dittatura della maggioranza»la principale minaccia al modello a stelle e strisce.

Oltre duecento anni più tardi, la repubblica appare tanto in linea con il disegno dei padri fondatori quanto lontana dal progetto iniziale.

Lo strapotere dei grandi finanziatori sta inevitabilmente rivoluzionando la competizione elettorale. Gli effetti del fenomeno sono parsi evidenti già durante le presidenziali del 2012. Per la prima volta i super-ricchi spesero più dei partiti e lo scontro tra magnati provocò lo sconvolgimento delle consultazioni repubblicane, con conseguente indebolimento di Mitt Romney. Le primarie sono governate da dinamiche predefinite e di norma solo pochi candidati le affrontano con il reale obiettivo di vincere.

A differenza di quanto avviene in Europa, negli Stati Uniti la campagna elettorale si svolge preminentemente dal basso verso l’alto e la costruzione sul territorio nazionale di una capillare rete di comitati organizzativi richiede notevoli mezzi finanziari. Così i politici che non hanno a disposizione tali risorse scendono in campo per ragioni accessorie: acquisire un profilo nazionale, pubblicizzare iniziative extraelettorali, oppure per offrirsi al futuro vincitore come potenziali vicepresidenti. Nel 2012 pressoché ogni sfidante di Romney era in corsa esclusivamente per ottenere notorietà. L’ex speaker della Camera, Newt Gingrich, da anni lontano dalla scene, puntava a incrementare le vendite dei suoi libri; l’ex senatore della Pennsylvania, Rick Santorum, intendeva invertire la parabola discendente della sua carriera; l’imprenditore Herman Cain semplicemente sperava di accedere alla ribalta nazionale.

A dimostrazione del tenore assai poco bellicoso della contesa, all’inizio della campagna elettorale Gingrich abbandonò comizi e fundraising per concedersi una crociera nel Mare Egeo con sua moglie Calista. Mentre Herman Cain, in barba alle più elementari regole dello scontro elettorale, non si premurò neanche di comprare il silenzio di una sua storica amante che, come facilmente prevedibile, alcuni mesi dopo riemerse dall’oblio. Nessuno immaginava, tantomeno i diretti interessati, che i miliardari della destra avrebbero adottato candidati tanto improbabili, inondandoli di denaro. In particolare Adelson versò 21 milioni di dollari a un super pac vicino a Gingrich che improvvisamente iniziò a negare l’esistenza della Palestina e che, grazie agli inaspettati fondi, si aggiudicò il cruciale Stato della Carolina del Sud. Solo dopo essersi recato personalmente a Las Vegas, Romney riuscì a convincere Adelson ad abbandonare Gingrich, promettendo al magnate di convertirsi nel più ostinato difensore d’Israele. Tuttavia il finanziere del Wyoming Foster Friess, con alcuni milioni di investimento, consentì all’italo-americano Santorum di aggiudicarsi ben undici Stati (tra questi i rilevanti Iowa e Colorado) e di prolungare le primarie fino a metà aprile.

Anatema per qualsiasi aspirante alla Casa Bianca, che in condizioni normali punta a chiudere la contesa per le idi di marzo, così da smettere i panni del leader radicale e guadagnare il centro per affrontare il rivale dell’altro partito. Costretto a devolvere tempo e risorse in una gara ritenuta vinta in partenza, nei mesi successivi Romney non riuscì a reinventarsi. Anche perché intanto la macchina elettorale di Obama aveva raccolto oltre un miliardo di dollari, grazie ai finanziamenti di molti oligarchi vicini alla sinistra. Tra gli altri: Jeffrey Katzenberg, amministratore delegato della Dreamworks; Fred Eychaner, grande editore televisivo di Chicago; Irwin Jacobs, fondatore di Qualcomm, la multinazionale specializzata nella produzione di semiconduttori.

I SUPER OLIGARCHI DEL MONDO

La società di ricerca Wealth-X definisce gli individui con un patrimonio netto ultra elevato (UHNW) come coloro che possiedono un patrimonio pari o superiore a 30 milioni di dollari. E secondo il suo ultimo rapporto , più di questi super ricchi vivono negli Stati Uniti che in qualsiasi altra parte del mondo.


«I super-ricchi si stanno comprando il sistema politico americano esattamente come gli oligarchi russi hanno comprato il loro»12, ha sentenziato l’autorevole editorialista del Washington Post Dana Milbank. La svolta appare inarrestabile. In vista del 2016 i concorrenti in corsa per la presidenza sono impegnati in questi mesi ad assicurarsi i finanziatori più munifici. I giochi non sono ancora decisi, ma alcuni accoppiamenti sono già ufficiali. George Soros, che nel 2014 è stato nominato tra i manager del super pac Ready for Hillary, e tutti i principali finanziatori di Obama si sono schierati al fianco della Clinton. Tra questi proprio Katzenberg, Eychaner e Jacobs; il produttore televisivo e in passato proprietario di Abc Family Haim Saban; il manager di hedge funds James Simons; il costruttore Eli Broad; l’ex partner di Goldman Sachs, Daniel Neidich; la produttrice della serie televisiva Homeland, Marcy Carsey. Hanno invece abbracciato la candidatura di Jeb Bush: l’albergatore Gordon Sondland; il patron dei New Jersey Jets, Woody Johnson; l’ex padrone dei Seattle Mariners, George Argyros.

Al contrario, Wall Street si divide equamente tra Jeb e Hillary. I fratelli Koch, almeno inizialmente, finanzieranno Bush junior, Scott Walker e Marco Rubio, che ha dalla sua anche Norman Braman, proprietario di un’immensa catena di concessionarie d’auto. Mentre Robert Mercer, un manager di hedge funds del New Jersey, ha scelto il senatore del Texas Ted Cruz. Infine Adelson e Steyer si riservano il diritto di schierarsi in una fase successiva della competizione.

Se la politica è retta dalle grandi dinastie, da decenni la sfera amministrativa è appannaggio dei lobbisti. Contrariamente a quanto accade in Italia, dove il potere burocratico è gestito dai dipendenti statali, negli Stati Uniti gli unici che tecnicamente conoscono le questioni parlamentari e la macchina governativa sono gli agenti di pressione che svolgono le loro funzioni nell’interesse dei clienti. Di frequente senza neanche esplicitare il mestiere e muovendosi dietro le quinte. Con evidente annullamento della responsabilità personale e politica.

 

Primarie USA, cosa sono i Pac, Gli Aipac ed i Super Pac

Il loro nome è Super Pac (Super political action committees) e stanno creando non pochi imbarazzi alle campagne elettorali dei candidati democratici e repubblicani alla presidenza degli Stati Uniti.

SUPER PAC

Si tratta di organizzazioni di raccolta fondi che appoggiano un politico o un partito in maniera privata e indipendente e hanno la capacità di influenzare l’opinione pubblica con spot elettorali e una serie di azioni a sostegno del candidato senza dover rispettare vincoli e divieti applicati alle donazioni dirette.

Nel gennaio del 2010 la Corte Suprema ha infatti stabilito che lo Stato Americano non ha il diritto di vietare alle lobby e alle grandi corporations di contribuire in maniera massiccia alle campagne elettorali americane.
Tuttavia, se in base al principio del “free speech”, la possibilità di finanziare illimitatamente le campagne è alla base della rappresentanza degli interessi a stelle e strisce, le regole a cui sottostanno questi Super Pac sono molto meno severe dei precedenti Pac e molto meno trasparenti. A differenza delle donazioni dirette, per esempio, le organizzazioni hanno la possibilità di mantenere segreto il nome dei finanziatori fino a elezioni concluse e, non essendo direttamente collegate alle campagne dei candidati, questi ultimi non possono essere ritenuti responsabili delle azioni di queste organizzazioni.

Fondi usati per spot contro gli avversari. I fondi di questi gruppi indipendenti però non possono essere utilizzati per sostenere direttamente la campagna, ma spesso (come è avvenuto per la scorsa tornata elettorale), per denigrare gli avversari con spot e campagne di disinformazione.
Inoltre, da quest’anno, le organizzazioni indipendenti hanno deciso di forzare la mano e aggirare ancora di più il regolamento, utilizzando le proprie risorse per pagare i viaggi dei candidati, realizzare ricerche di mercato a tappeto e analizzare il sentiment dell’elettorato a Usa.

Le donazioni dal basso? A confronto raccolgono briciole

La forza di questi Super Pac sta minando alle basi il mito delle campagne americane, fatte di donazioni dal basso e di raccolta di piccole somme da parte della base dell’elettorato.

Le campagne di grassroots e advocacy rimangono centrali, ma uno spettro aleggia sulla maggior parte dei candidati americani.

Per Jeb Bush già 108 milioni. Se infatti da una parte abbiamo le donazioni con un tetto di 2.700 dollari a supporter, dall’altra i miliardari di mezza America hanno dato il loro appoggio più o meno esplicito ai candidati e le cifre raggiunte sono da capogiro (già quasi 300 milioni di dollari) considerato che non siamo ancora entrati nel vivo della campagna elettorale.
Il paperon dei paperoni dei Super Pac è Jeb Bush con 108,5 milioni raccolti dal Pac a suo favore, contro gli appena 11,4 milioni raccolti dalla campagna. Lo seguono a ruota altri due repubblicani come Ted Cruz (37,8 milioni dai gruppi indipendenti contro i 14,3 dalla campagna) e Marco Rubio, che con 33,1 milioni ha un rapporto di 3 a 1 rispetto ai fondi diretti.

Trump, il magnate si fa largo tra i competitor di Hillary

Un candidato che invece di finanziamenti ne ha avuti davvero pochi, perché in sostanza non ne ha bisogno, è Donald Trump. Le donazioni a suo favore ammontano a soli 1,9 milioni di dollari e appartengono tutte alla schiera delle donazioni dirette.

Partito come outsider per la corsa alla presidenza, considerato quasi un fenomeno da baraccone dagli altri candidati, si sta facendo largo tra le file del suo partito e c’è chi dice che potrebbe essere proprio lui a sfidare Hillary Clinton nel 2016.

I paragoni con Silvio Berlusconi. Molti lo hanno paragonato a Silvio Berlusconi e alla discesa in campo del 1994, per la sua grande fortuna imprenditoriale, la capacità di dominare i palinsesti televisivi e la sfacciataggine che piace molto alla gente comune.
Una cosa è certa, il magnate americano sta molto simpatico al cittadino medio, ha condotto programmi di successo come The Apprentice si è classificato come celebrità n° 17 nella lista di Forbes 100 del 2011, e ha portato avanti una serie di campagne online molto avvincenti, come l’appuntamento settimanale #Askthedonald, dove risponde a commenti e domande postate sui social media dai suoi fan, estimatori o avversari.

L’AIPAC e l’influenza della potente lobby Israeliana
E a proposito di lobby straniere, menzione fondamentale dev’essere fatta a quella Israeliana, la cui capacità di condizionamento della politica americana è leggendaria e, per molti, inquietante, tanto che nel gennaio dell’89 alcuni ex esponenti governativi, fra cui l’ex sottosegretario di Stato George Ball, si risolsero all’insolito passo di presentare un esposto alla Federal Election Commission contro un organismo che secondo Ball “aveva fatto un enorme lavoro di corruzione del processo politico democratico”. L’organizzazione in questione si chiama American Israel Public Affairs Committee

L’AIPAC, American Israel Public Affairs Committee, è un gruppo di pressione (lobby) americano noto per il forte sostegno allo Stato di Israele. È considerato il più potente e influente gruppo d’interesse a Washington.

 

REGAN SALVA LE BANCHE

E’ in queto momento che L’amministrazione Reagan, infatti, decise di salvare le banche aiutandole a scoprire miliardi di dollari di attività di cui sino ad allora non si era sospettata l’esistenza: la “magia”, così, si realizzò, permettendo alle banche di attribuire nel bilancio in corso un valore molto elevato all’avviamento, ovvero i profitti futuri previsti. Ma chiaramente, le correzioni sulla carta non potevano modificare la realtà: esse, infatti, dovevano ancora pagare sui depositi interessi più elevati di quelli che percepivano sui mutui, cosicchè ci voleva ancora un altro “ingrediente”, un ingrediente che comportava anche degli Ibidem.

I ruggenti anni Novanta. Lo scandalo della finanza e il futuro dell’economia,

Reagan, infatti, aveva premuto parecchio sul pedale della deregulation, consentendo così alle banche di investire in nuovi settori a rischio, comprando persino i cosiddetti “titoli spazzatura”: c’era infatti la speranza che i profitti elevati che ne potevano derivare consentissero loro di risalire la china in cui le aveva spinte la Fed, salvandole dal baratro dell’insolvenza, il tutto a costo zero. Ma l’obiettivo non era fare della buona economia o della buona contabilità, né seguire prassi bancarie corrette, bensì soltanto rimandare la resa dei conti a un giorno in cui se ne sarebbe occupato qualcun altro. Così, i ripari fiscali in campo immobiliare si moltiplicarono a dismisura e le città si riempirono di inutili grattacieli pieni di uffici.

Ci erano voluti quasi dieci anni prima che gli errori dell’inizio del decennio-tassi d’interesse esorbitanti, deregolamentazione sconsiderata e trucchi contabili-risultassero evidenti e imponessero di trovare una soluzione. Nel frattempo, poi, in tutto questo marasma, il Congresso, attorno a cui cominciava da tempo ad aleggiare un clima di sfiducia e sospetto, come luogo simbolo della corruzione della politica nazionale e della malattia dell’intero sistema, fu nuovamente colpito al cuore da un enorme scandalo, immediatamente collegato proprio al crack delle Casse di Risparmio, da cui balzò in primo piano il nome di un finanziere e speculatore, Charles Keating, il quale avrebbe a sua volta messo nei guai cinque senatori.

Cosicchè, quando un numero elevatissimo di Istituti dichiarò fallimento o fu indotto a dichiararlo dagli organi di vigilanza, il costo dei rimborsi a carico dell’Erario si rivelò enorme (oltre 140 miliardi di dollari). In ogni modo, poiché dall’andazzo che aveva portato a questa voragine avevano beneficiato entrambi i partiti, e ambedue portavano la loro parte di responsabilità, avendo i parlamentari preposti alla sorveglianza scelto di ignorare i segnali di allarme, la classe politica aveva chiaramente fatto quadrato e il crack in sé non divenne subito scandalo politico.

Eppure, a riprova, ancora una volta, degli intrecci tra politica e denaro “interessato”, i supervisori distratti, cioè i membri delle commissioni competenti, avevano incassato dalle lobby delle Casse 4.5 milioni di dollari di contributi per le rispettive campagne elettorali.

A fronte della successiva inchiesta aperta dagli organi federali proprio in seguito allo scandalo Keating, sarebbe emersa ancora una volta la responsabilità trasversale di una larga parte del mondo politico di Washington, aumentando così ulteriormente la già diffusa sfiducia dei cittadini verso le istituzioni

Gli anni Novanta: tra tentativi di riforma e resistenze del “sistema” . La crescente consapevolezza della corruzione di Washington e lo scandalo delle Casse di Risparmio Il decennio dei Novanta, dunque, si apriva con il Campidoglio messo globalmente sotto accusa dai media e dalla stampa nazionali, nonché circondato dalla più grande disistima pubblica: secondo un sondaggio condotto nel 1990 per la rete CBS e il New York Times, infatti, il 18% degli americani si diceva convinto che la grande maggioranza dei parlamentari fosse corrotta sul piano finanziario, il 22% che lo fosse solo la metà, il 40 % che lo fosse almeno una parte1 .

E in effetti anche i politici discutevano ormai apertamente di una crisi etica, di una “questione morale”, in quanto singoli casi di corruzione aperta, come quello Keating cui già si è fatto riferimento, mascheravano una tendenza a comportamenti generali che investivano il sistema stesso in un giro di denaro “interessato” che aveva per destinatario il parlamentare in forme perfettamente legali. La vera corruzione, si diceva, era la dipendenza quotidiana del 1 Rodolfo Brancoli, In nome della lobby, Garzanti, 1990 parlamentare dal lobbyista e dal PAC, che legalmente ne finanziavano la campagna garantendogli il futuro, e ne integravano attraverso la pratica degli honoraria persino lo stipendio2 .

Come detto, il crack delle Casse di Risparmio e il caso Keating accesero finalmente la “miccia” di questa enorme “bomba”. Peraltro, come Brancoli ancora una volta evidenzia,

Con questo sistema veniva meno anche qualsiasi distinzione di parte, che era o sarebbe dovuta essere basata sulla differenza di principi, proprio perché il finanziamento si rivolgeva ai destinatari di tutti i partiti indistintamente, sulla base del puro interesse di chi dava e del potere di chi riceveva, con quest’ultimo che era poi inesorabilmente vincolato a usare tale potere per ricambiare la generosità interessata.

E infatti Keating, pur essendo un repubblicano, non ebbe alcuna remora a sovvenzionare quattro esponenti democratici: insomma, la dipendenza che si era creata da questo sistema aveva concorso a determinare una perdita di identità3 , e proprio tale scandalo, appunto, determinò il montare definitivo di una pressione per la riforma, anche se l’esito sembrava incerto.

Finalmente, i legislatori stessi ammettevano l’esistenza di un malessere, la necessità di rivedere norme etiche con troppe smagliature, la natura dei rapporti con i gruppi di interesse e, appunto, il sistema di finanziamento delle campagne elettorali. Tuttavia, i progetti di riforma hanno vaste implicazioni per la condotta pubblica e per gli equilibri politici: ad esempio, proprio tra gli effetti dell’intreccio stretto tra Congresso e denaro “interessato” c’è – come meglio si vedrà – il prodursi di una situazione di vantaggio del parlamentare uscente, che troppo spesso svuota la competizione elettorale di ogni significato reale. Non pochi, in effetti, spiegano così l’elevatissimo tasso di rielezione (superiore al 98% alla Camera nel 1988) e – dicevano i Repubblicani – il perpetuarsi del controllo dei Democratici sul corpo legislativo: di qui, dunque, la difficoltà generale di far maturare un consenso sui progetti di riforma di cui si discuteva, che non erano neutri nei 2 Ibidem. 3 Ibidem. loro effetti, con, poi, un contrasto di fondo tra i due maggiori partiti, che conferiva una dimensione particolare al dibattito. E infatti, dietro l’accanimento con cui fu perseguito lo speaker democratico della Camera Jim Wright, anche lui tra le illustri vittime degli scandali, non era difficile scorgere una motivazione di parte, ovvero l’intento dei Repubblicani di usare il fattore morale, in combinazione con una riforma del sistema di finanziamento delle campagne congegnata in modo da ridimensionare i vantaggi dell’uscente, per dare una spallata al controllo democratico del Congresso.

Dopo il Watergate, infatti, il Congresso – cioè i democratici – aveva tenuto costantemente sotto tiro l’Esecutivo, cioè di fatto le Amministrazioni repubblicane, imbrigliandolo con una serie di norme etiche severe e sottoponendolo anche al regime di uno speciale magistrato autonomo dal Dipartimento di Giustizia (norme, queste, da cui però il Congresso si era sino ad allora esentato4 ).

Infatti, mentre il governo federale era tutto sommato protetto dalla corruzione e dai conflitti di interesse (cosa che riguardava anche la riforma delle campagne presidenziali), nel caso del Congresso c’era appunto la sensazione che il sistema corrente che governava la condotta finanziaria dei suoi membri non funzionasse come avrebbe dovuto. Infatti, gran parte delle norme dell’epoca erano in vigore da un decennio, da quando Camera e Senato avevano istituito nella forma contemporanea le commissioni di probiviri e le regole sulla trasparenza finanziaria, in precedenza solo applicate alla Casa Bianca e all’Esecutivo. Ma il tempo e l’ingegnosità degli interessati, appunto, avevano eroso le norme, dando origine a una vasta “aneddotica” e ad una situazione dominata quantomeno dall’apparenza di vistosi conflitti di interesse:

c’era stata una esplosione dei costi delle campagne elettorali, era cresciuto a dismisura il numero dei gruppi di interesse e dei lobbyisti e si era prodotta, in definitiva, una frammentazione del potere in seno al ramo legislativo. Come riporta ancora Brancoli, in un libro pubblicato nella primavera del 1990 da due politologi della Cornell University, Benjamin Ginsberg e Martin Shefter, si sosteneva che gli Stati Uniti stavano entrando in un sistema politico “post-elettorale”, in cui cioè gli interessi in competizione avevano rinunciato a coinvolgere gli elettori e avevano ricondotto lo scontro interamente 4 Ibidem.

entro il “Palazzo”, attraverso gli strumenti dell’azione legale, un flusso incessante di denaro “politico” connesso al lobbying, e i media, mentre la gran parte delle elezioni veniva già decisa ad ogni effetto pratico prima che si aprissero i seggi.

Cosicché, concludevano i due autori, non doveva sorprendere che lo stallo elettorale e la costante lotta istituzionale fossero accompagnati da una caduta continua della partecipazione al voto (appena il 37,6 per cento degli elettori aveva ritenuto di scomodarsi nelle elezioni Congressuali del 19865 ). 2. Tentativi di riforma del Congresso e di George H.W.Bush Tuttavia, proprio la riforma del sistema di finanziamento delle campagne elettorali per le cariche federali si rivelava uno degli ossi più duri, sebbene la necessità di “riformare la riforma” del 1974 presentasse più che mai urgenza: i PAC, i candidati e gli stessi comitati nazionali dei partiti, infatti, avevano mostrato una fantasia inesauribile nell’escogitare sempre nuovi modi per aggirare le limitazioni poste dalla legge.

Tra i vari stratagemmi vi erano ad esempio i cosiddetti “leadership PACs”, ovvero PAC creati da personaggi con aspirazioni presidenziali per finanziare l’attività preliminare prima di dichiarare ufficialmente la candidatura e ricadere sotto la normativa che regola le campagne presidenziali. Ma anche gli stessi partiti avevano trovato il modo di aggirare le disposizioni della legge e di reinserire nel circuito i contributi illimitati di miliardari e grandi gruppi di

L’aggiramento della “tempesta”: i fondi “hard” e i fondi “soft” di Democratici e Repubblicani

Il denaro “hard” era quello raccolto nei modi e con i limiti imposti dalla legge per gli incarichi federali; il denaro “soft”, invece, apparteneva tecnicamente a conti “non federali” raccolti dai comitati dei partiti, non soggetti quindi a limiti, divieti e requisiti di trasparenza.

In aggiunta al comitato nazionale di partito, infatti, i democratici e i repubblicani avevano altri due comitati in ciascun ramo del Congresso, il cui compito era quello di raccogliere donazioni per finanziare le campagne con il denaro “hard”, ma disponevano anche di un fondo “soft” che in teoria poteva solo essere usato in connessione con elezioni locali per attività dirette a “costruire” il partito, come la campagna per la registrazione dei cittadini in età di voto e per promuovere l’affluenza ai seggi il giorno delle elezioni. In realtà, però, quest’ultimo fondo diveniva un modo per incanalare ai comitati statali del partito denaro altrimenti illegale, che veniva usato in operazioni di fiancheggiamento delle elezioni congressuali e presidenziali.

In un editoriale del 1990 il New York Times paragonava questo espediente al “collettore sotterraneo di liquido sporco” e, in effetti, con tale sistema, i partiti passarono a incamerare dai 15 milioni di dollari del 1980 ben 100 milioni otto anni dopo. Ovviamente, poi, non esistono obblighi di pubblicità, cosicché restano segreti proprio i contributi maggiori.

Uno studio del Center for Responsive Politics pubblicato nel dicembre del 19896 si concentrava su 28.5 milioni di dollari di contributi privati arrivati alle organizzazioni locali di partito in nove stati durante la campagna del 1988: in nove stati particolarmente importanti per le elezioni presidenziali, cioè, i repubblicani avevano raccolto 16.7 milioni e i democratici 11.8. Ma in quale maniera? La legge sulle elezioni federali, infatti, non consentiva donazioni da parte di aziende e limitava a 1000 dollari per elezione il contributo individuale, senonché molti stati consentivano contributi aziendali e individuali illimitati per le organizzazioni locali di partito.

Ogni parvenza di distinzione tra denaro “soft” e denaro “hard”, dunque, scompariva quando . le donazioni venivano sollecitate direttamente dai segretari amministrativi delle campagne presidenziali (diversi dai segretari amministrativi dei partiti) e venivano poi girate alle organizzazioni statali per coprire spese che altrimenti avrebbero dovuto essere fronteggiate con i fondi del finanziamento pubblico, i quali potevano così essere destinati interamente all’acquisto di campo televisivo per battere a tappeto con gli spot pubblicitari i “mercati” più importanti.

Dunque, nel porre mano a una riforma del sistema di finanziamento delle campagne federali era necessario individuare soluzioni che da un lato non trovassero rimedi ancora più rovinosi per il sistema e dall’altro, non si scontrassero con il Primo Emendamento della Costituzione. A tal proposito, la sentenza della Corte Suprema del 1976 sancì la costituzionalità del limite posto all’importo dei contributi, quella del finanziamento pubblico delle campagne presidenziali e, in questo contesto, di un tetto alle spese elettorali, mentre dichiarò l’incostituzionalità delle norme che stabilivano limiti contributivi per i fondi personali o familiari del candidato, limiti di spesa complessivi della campagna e individuali del candidato, nonché limiti alle “indipendent expenditures”.

Proprio l’assenza di limiti a quanto un individuo poteva spendere di suo, dunque, concorre a spiegare la trasformazione che si operò del Senato in un club di miliardari: il problema principale dell’aspirante che si buttava nella mischia, infatti, era quello di acquisire credibilità, e la chiave della credibilità in quanto candidato era innanzitutto il denaro di cui questi disponeva per finanziare la sua campagna. In questo senso, i miliardari acquisivano una credibilità istantanea, senza neppure dover sprecare tempo a corteggiare finanziatori e senza incorrere nelle spese del fund-raising, e proprio questa capacità illimitata di spesa semplicemente attingendo al proprio patrimonio, costituiva il primo ed essenziale motivo che scoraggiava qualsiasi sfidante privo di una identica fortuna.

D’altro canto, poi, la possibilità che comparisse all’orizzonte un qualche miliardario spingeva gli uscenti ad ammassare veri e propri tesori da spendere nella campagna di rielezione, aumentando così irrimediabilmente la dipendenza dagli interessi organizzati. Ancor oltre, però, un eventuale progetto di riforma doveva fare pure i conti con le finalità diverse che perseguivano i due partiti: al centro della contesa c’era ovviamente sempre il denaro.

Tuttavia i democratici, che avevano una base più ristretta di finanziatori potenziali, temevano la eliminazione o anche solo la riduzione dei finanziamenti PAC, il fattore forse determinante per il loro mantenimento del controllo sul Congresso in questi anni di grande forza repubblicana, e avrebbero accettato, dunque, misure limitative dei PAC solo se fossero stati introdotti il finanziamento pubblico almeno parziale e il tetto di spesa, mentre i repubblicani, che non avevano problemi di reperibilità dei finanziamenti, erano contro i PAC ma anche contro il finanziamento pubblico e il tetto delle spese, ritenendo di dover sfruttare al massimo la propria capacità finanziaria per sfidare gli uscenti (all’epoca in maggioranza democratici). Cosicché, presentando il suo progetto di riforma nel giugno del 1989, il repubblicano Bush aveva non a caso ribadito la sua opposizione sia al finanziamento pubblico che ai limiti di spesa nelle campagne del Congresso, sostenendo che il sistema avrebbe portato ad una erosione della partecipazione al processo politico, che avveniva appunto attraverso il sostegno finanziario ai candidati, i quali avrebbero pur dovuto dimostrare la loro capacità di attirare tale sostegno privato, e avere modo di portare il loro messaggio politico a quanti più elettori possibile.

Occorrevano, invece, secondo Bush, “riforme che riducessero il ruolo degli interessi particolari, accrescessero quello degli individui e rafforzassero i partiti”. Queste, dunque, erano le sue proposte: riguardo i PAC, voleva eliminarli tutti, meno quelli cosiddetti ”ideologici”, dunque via i PAC dei sindacati, delle aziende e delle associazioni di categoria, da cui era venuto quasi il 90 per cento dei contributi ai candidati durante le ultime elezioni, e così pure i “leadership PACs”; quelli sopravvissuti, invece, avrebbero visto ridotto della metà l’importo del contributo massimo a un candidato; invariato, invece, sarebbe rimasto il contributo ai partiti a livello nazionale. Sarebbe rimasta poi la possibilità delle spese “indipendenti”, ma gli elettori, in questo caso, avrebbero dovuto ricevere tutte le informazioni necessarie ad identificare la paternità della campagna che veniva condotta a questo modo pro o contro un candidato. Riguardo i partiti politici, invece,

Bush proponeva che avrebbero dovuto spendere due volte e mezzo la somma che potevano spendere in quel momento per sostenere i propri candidati al Congresso; riguardo i candidati uscenti, poi, i parlamentari non avrebbero potuto più accantonare i fondi avanzati dopo una campagna elettorale e usarli nella elezione successiva, poiché il surplus sarebbe dovuto essere liquidato dopo ogni elezione o girandolo al partito di appartenenza, oppure restituendo i contributi ai donatori, o devolvendolo all’Erario per ridurre il debito pubblico.

Infine, riguardo alle campagne presidenziali, Bush non prevedeva nessun limite alla raccolta e all’impiego di “soft money”, ma pubblicità piene di “entrate” e “uscite” dei partiti a livello federale. Il senso politico complessivo del pacchetto, tuttavia, non era difficile da cogliere: le proposte, infatti, miravano solo a limitare tutti i vantaggi che il sistema attuale assicurava ai democratici sul piano finanziario e con gli strumenti a disposizione degli uscenti, ingigantendo, così, i punti di forza dei repubblicani.

La riforma inviata dal Presidente al Congresso, dunque, si inseriva nella discussione che già impegnava la leadership al Senato in modo informale, e alla Camera una “task-force” bipartitica di sedici membri, e non toccava la Federal Election Commission, creata dal Congresso nel 1974 per assicurare il rispetto delle norme introdotte per regolamentare il finanziamento delle campagne elettorali. La FEC, però, così com’era, era diventata anch’essa parte del problema, in quanto rientravano nelle sue responsabilità l’amministrazione dei fondi pubblici nelle elezioni presidenziali e dei programmi che assicuravano la pubblicità di introiti e spese, l’interpretazione delle leggi elettorali, le indagini delle possibili violazioni e l’avvio di azioni legali nel caso di infrazioni, ed essa lasciava guarda caso assai a desiderare quando doveva far rispettare la legge, finendo per avallare interpretazioni lassiste e chiudere gli occhi su violazioni dello spirito delle norme7 . Nel dibattito pubblico seguito alla presentazione di queste proposte di riforma emerse non soltanto tutta la difficoltà di far maturare un consenso bipartitico, essenziale per la sua traduzione legislativa, ma anche la difficoltà oggettiva di regolare il flusso del denaro nel processo politico democratico, nel momento in cui ci si sforzava di bilanciare l’esigenza di alimentarlo adeguatamente con quella di contenere il peso condizionante dei finanziamenti privati. Peraltro, a prescindere dalla possibilità di raggiungere un accordo politico per l’abolizione dei PAC, era intanto molto dubbio che la distinzione operata da Bush tra PAC “di interesse” e PAC “ideologici” reggesse ad un vaglio costituzionale, e tra le varie obiezioni che venivano mosse a questa, la principale era che, dei due grandi problemi da affrontare, ovvero la quantità di denaro che il candidato doveva raccogliere e la sua provenienza, solo il secondo era messo comunque a fuoco, mentre era il primo a fare da volano al sistema. Per arrivare poi a contenere le spese attraverso i limiti che per la Corte Suprema potevano solo essere volontari occorreva che il candidato avesse l’incentivo del finanziamento pubblico almeno parziale, ma Bush, come detto, l’aveva categoricamente respinto. 7 Ibidem. 3. L’amministrazione Clinton e il proseguimento delle riforme Nel 1992, peraltro in prossimità della scadenza del mandato di Bush, i Democratici riuscirono a far passare un nuovo provvedimento di legge in entrambi i rami del Congresso, ma si si scontrarono direttamente contro il veto del Presidente, e peraltro il tentativo di superare questo fallì per nove voti al Senato.

La successiva elezione di Bill Clinton in quell’anno risollevò le speranze che la legge fosse approvata, con una maggioranza Democratica al Congresso e un Democratico alla Casa Bianca: tuttavia Clinton non fece della questione una delle sue priorità, cosicché i Democratici alla Camera si mossero assai lentamente. Aspettarono, infatti, fino al Novembre ’93 per portare il provvedimento alla Camera e poi fino all’Agosto ’94 per nominare dei relatori che sistemassero le differenze sostanziali con l’analogo bill passato al Senato nel luglio ’93, ma con l’avvicinarsi delle mid-term Congressuali, i Senatori Repubblicani usarono una manovra Parlamentare per bloccare una relazione sul provvedimento .

Le speranze di superare lo stallo furono di nuovo riaccese l’11 giugno 1995, quando nel New Hampshire Clinton e Gingrich, stringendosi la mano, fecero la promessa solenne di creare una commissione bipartisan per riformare le leggi sui finanziamenti delle campagne elettorali: ma ancora una volta queste speranze furono rapidamente deluse. Nel giro di una settimana, infatti, Clinton propose di creare una commissione le cui risoluzioni sarebbero state inviate al Congresso per un voto diretto, senza possibilità di emendamenti; Gingrich chiamò la mossa del Presidente un “espediente”, ma aspettò fino a novembre per fare la sua proposta, ovvero una commissione meno potente senza una procedura di voto diretta, cosicché, alla fine dell’anno, i riformatori sarebbero stati costretti ad ammettere che l’idea della Commissione era ormai fallita.

Di fronte, dunque, all’apparente impossibilità di procedere su questa strada, alcuni congressman portarono avanti tentativi indipendenti, come la parlamentare della Camera Linda Smith, seguita dal collega Christopher Shays e 8 Campaign Finance Reform, CQ Almanac; Kenneth Jost; CQ Press; 1996 da diversi altri esponenti Democratici, attraverso un bill chiamato Bipartisan Clean Congress Act, nel 1995. Il progetto analogo al Senato – il Senate Campaign Reform Act, dello stesso anno – veniva messo assieme dal Repubblicano John McCain dell’Arizona e dal Democratico Russ Feingold, seguito dal “freshman” Fred Thompson del Tennessee. Sul primo fronte, la Smith intendeva usare una cosiddetta “dischargepetition” per portare il provvedimento fuori dalla commissione,nell’aula della Camera, pur essendo questa un’opzione dall’assai difficile riuscita, mentre al Senato i promotori del bill vedevano maggiore facilità per l’approvazione. 3.1 Tra lotta alle lobby e proseguimento della deregulation.

Frattanto, un altro anno di elezioni si avvicinava e molti membri del Congresso annunciavano che non si sarebbero ricandidati perché ormai scettici sulla reale capacità dell’istituzione di portare cambiamento: cosicché, in questo clima di crescente sfiducia e urgenza di riformare il sistema, anche il Presidente Clinton aggiunse la sua voce nel suo discorso sullo Stato dell’Unione del gennaio ’96. Dopo essersi congratulato con i parlamentari per aver rafforzato la trasparenza nel ricorso ai lobbisti e aver bandito regali e pranzi con questi, il Presidente affermò che voleva “sfidare il Congresso ad andare oltre, eliminando l’influenza degli interessi particolari sul sistema attraverso il passaggio del primo provvedimento bipartisan di riforma del sistema di finanziamento elettorale”9 . Osservatori esterni, tuttavia, espressero da subito scetticismo sulla possibilità che il crescente scontento riguardo i metodi di finanziamento delle campagne avrebbe realmente spinto il Congresso ad agire, e questo perché, come affermava il professore di scienze politiche della New York University Candice Nelson, non si trattava di una questione “calda” per gli elettori, dunque i membri del Congresso non vedevano questi metter loro pressione e chiedere cosa avrebbero fatto con la riforma .

Ciavia rittu a Mi cucinu Carmelu chi vulia fari u Presidenti NAMERICA, poi vitti q ???????? ???????????????????????????????? un ci lavia scanciati e lassai stari.

Se un presidente AMERICANO spende 14 MILIARDI per essere ELETTO. MI DOMANDO. Q glieli DA?? e COME LI RESTITUISCE:?

E CHI PERDE CHE HA SPESO ANCHE LUI 14 MILIARDI COME FA???

So facendo uno studio che posterò nel Blog nelle prossime settimane. Dove si evincerà Facilmente, PQ l’America è Sempre in Guerra. PQ l’Oligarchia in AMERKA E’ così Ossessiva. IL Ruolo degli Ebrei. Vi prometto q i non addetti ai lavori rimarranno disgustati

Anche non considerando la spesa dei miliardari Bloomberg e Tom Steyer, i candidati e i gruppi Democratici hanno speso 5,5 miliardi di dollari rispetto ai 3,8 miliardi di dollari dei Repubblicani. Mai nella storia i Dem avevano avuto un vantaggio finanziario così grande.

In queste elezioni sta crescendo anche la “quota rosa” delle donazioni. Le donne che hanno donato rappresentano il 44% sul totale, molto di più rispetto al 37% del 2016. Ad aumentare è anche l’ammontare complessivo di queste donazioni, si  passa, infatti, da 1,3 miliardi del 2016 a 2,5 miliardi di dollari registrati fino a metà ottobre.

I piccoli donatori – coloro che donano somme pari o inferiori a 200 $ – rappresentano il 22,4% del totale, un dato in forte crescita rispetto al 15,6% del 2016. I numeri delle loro donazioni fanno registrare nuovi record per entrambi gli schieramenti. Anche qui, però,  i Democratici con 1,7 miliardi di dol

Ma i più ricchi continuano ad esercitare la loro influenza a colpi di grandi donazioni. La cifra stanziata dai primi 10 donatori è di 642 milioni di dollari, circa il 5% del totale. Sul mondo dei grandi donatori che sostiene Donald Trump è intervenuto, nel corso della diretta sui nostri social, Mattia Diletti che insegna Scienza della politica all’Università «La Sapienza» di Roma: “Andando a spulciare tra i settori e nello specifico tra i nomi dei grandi finanziatori, ci sono tanti amici del presidente Trump. Pensiamo al settore dei casinò.

C’è un grandissimo magnate con base a Las Vegas che è il più grande donatore individuale della campagna di Trump. Altri “amici di Trump” si registrano nel “Real Estate” , ovvero, il settore degli investimenti immobiliari che lo sta sostenendo in larga parte. A volte è molto difficile vedere la separazione tra l’azione presidenziale di Trump e le dinamiche privatistiche e queste donazioni sembrano confermare questa idea: è soprattutto il mondo che ruota attorna a lui che si mobilita per sostenerlo a cui si aggiungono alcuni importanti settori che tradizionalmente aiutano i Repubblicani.”
Il riferimento al magnate dei casinò di Las Vegas, è a Sheldon Adelson, che insieme con sua moglie Miriam, un medico, ha donato 183 milioni di dollari ai Repubblicani, facendo segnare un altro piccolo record: questa è la somma più grande versata da una coppia in una singola elezione.

Sul 13% rappresentato dalle quote di autofinanziamento da parte dei candidati, pesa sicuramente, come già ricordato, la campagna miliardaria di Bloomberg. Stanno perdendo invece terreno i PAC tradizionali – il cui limite di contributo è di $ 5.000 – scendendo al 5% del totale rispetto al 9% del 2016. Su questo calo, pesa da un lato il mancato adeguamento dei limiti di contribuzione di questi comitati, fermi ormai da dieci anni, dall’altro i soldi provenienti dalle aziende sono considerati “tossici” da tantissimi nuovi candidati Democratici al Congresso che preferiscono compensare queste perdite con le piccole donazioni (e ci stanno riuscendo benissimo).

 

Secondo le analisi di OpenSecrets del 3 novembre scorso, il costo totale delle elezioni statali e federali di medio termine del 2022 supererà i 16,7 miliardi di dollari. I candidati federali e i comitati politici (Political Action Committees – Pac) avrebbero speso 8,9 miliardi di dollari, mentre i candidati statali, i comitati di partito hanno messo sul piatto 7,8 miliardi di dollari.

 

Da dove arrivano le donazioni

Una montagna di soldi è andata alla competizione per il controllo di Camera e Senato, soprattutto in Pennsylvania, Georgia, Arizona a Ohio ed è arrivata dalle super Pac (Political Action Committees) collegate alle leadership del Congresso.

Ma cosa sono questi Political Action Committees? La maggior parte dei soldi che finanziano le campagne provengono quindi dai Pac (Political Action Committees), i comitati di azione politica in gran parte non regolamentati.

I Pac sono organizzazioni di gruppi industriali, sindacati o singole aziende di raccolta fondi che appoggiano un politico o un partito in maniera privata e hanno la capacità di influenzare l’opinione pubblica a sostegno del candidato. I Pac, regolamentati del Comitato elettorale federale (Fec), si dividono in tre tipi: tradizionali, super o ibridi. Le regole sulla quantità di denaro che un comitato può ricevere in donazioni o su come operano questi comitati sono diverse a seconda del tipo di Pac.

Andiamo con ordine. I Pac tradizionali sono soggetti a limiti di spesa e donazione e possono spendere fino a un massimo di 5000 dollari per candidato a ogni elezione; tuttavia, non sono gestiti direttamente da partiti o da singoli candidati.

Ci sono poi i super Pac. Nati nel 2010, si contraddistinguono perché non possono versare direttamente denaro ai candidati, ma possono spendere liberamente i loro fondi per pubblicità politiche e attività indipendenti finalizzate a influenzare l’opinione elettorale. Inoltre, non devono affrontare limiti di donazione, il che significa che singoli individui o società possono donare una quantità illimitata di denaro ai super Pac. L’abbattimento di questi limiti ha reso i super Pac attori fondamentali nelle elezioni statunitensi.

E infine ci sono i Pac ibridi che hanno un doppio conto: uno che funziona come quello di un Pac tradizionale, con limiti di contribuzione, e l’altro che funziona come quello di un super Pac, che effettua solo spese indipendenti. Al di là delle specifiche differenze, secondo la Campaign Finance Law, la legge che regola i finanziamenti politici, tutti i Pac sono tenuti a rivelare l’importo totale di denaro ricevuto, nonché i nomi, gli indirizzi, i datori di lavoro e le occupazioni di qualsiasi persona che dona loro più di 200 dollari in un anno.

Quanto hanno contribuito i Pac in nelle elezioni di midterm 2022? Stando ai dati raccolti dall’organizzazione no profit di Usa Facts, a metà settembre del 2022, i Pac hanno speso un totale di 5,89 miliardi di dollari per le elezioni di midterm di quest’anno. Circa il 50% di tale spesa proviene da Pac ibridi, il 32% da Pac tradizionali e il 18% da super Pac. La stragrande maggioranza della spesa proveniente dai Pac ibridi arriva dai loro conti di spesa indipendenti che non sono soggetti a limiti.

Chi finanzia i Pac, quindi? Individui, società e altri gruppi politici (come i comitati dei candidati) contribuiscono a finanziare le diverse tipologie di Pac. Ma con l’allentamento delle leggi sul finanziamento delle campagne elettorali negli ultimi decenni, i contributi di megadonatori sono aumentati e sono stati indirizzati maggiormente ai Pac ibridi.

Per queste elezioni di midterm, i miliardari i americani non hanno badato a spese: secondo i dati della Federal Election Commission, i super ricchi degli Usa hanno versato complessivamente 1,1 miliardi di dollari ai comitati politici e ad altri gruppi attivi nella campagna elettorale. 

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Dagli imprenditori miliardari ai magnati della tecnologia fino ai gestori di fondi investimento, questi megadonatori sono in maggioranza repubblicani: i miliardari rappresentano il 20% delle donazioni repubblicane totali rispetto al 14,5% delle donazioni democratiche. In cima alla classifica dei ‘mega-donors’ c’è ancora una volta il finanziere di origini ungheresi George Soros, che ha staccato un assegno da 128,5 milioni di dollari però per i democratici. Ci sono poi i piccoli donatori, che devolvono meno di 200 dollari all’anno e per questo sfuggono dal raggio della registrazione imposta dalla Campaign Finance Law. 

 

Perché e come i candidati negli Usa spendono così tanti soldi

Osservare il flusso di denaro rivela molte cose su come stanno cambiando gli Stati Uniti, perché è fondamentale guardare come vengono finanziate le campagne politiche e come vengono spesi i fondi dagli stessi candidati. 

Le scelte che i candidati fanno dimostrano quali sono le loro priorità: viaggiare e tenere comizi in un determinato luogo e spendere gran parte dei finanziamenti per pubblicità in Tv o per sponsorizzazioni sui social media significa voler parlare a una fetta precisa di elettori.

Se il 2012 è stato l’anno delle elezioni dei social network, il 2022 rappresenta la svolta delle pubblicità su piattaforme streaming. Questo tipo di mezzo ha un particolare vantaggio: la Tv connessa e lo streaming consentono il “micro-targeting” degli spettatori fino al livello familiare, cosa che non è possibile attraverso la trasmissione televisiva, dove i mercati dei media sono molto più grandi; inoltre, consente di sfuggire alla propaganda russa presente sui social media. 

C’è poi la macchina del fango, alimentata con il denaro dei super Pac. Le campagne pubblicitarie denigratorie nei confronti di un’etnia o di un avversario politico (o persino di un suo familiare) sono diventate uno strumento eccezionale per la polarizzazione del dibattito politico. Uno strumento che funziona.

Ma quanto sono utili per i candidati queste donazioni? Di solito vince il candidato che spende più soldi durante la campagna elettorale, soprattutto quelle presidenziali. Ma la spesa non è l’unico fattore decisivo per ottenere la vittoria.

Questo enorme giro di soldi che sostiene le elezioni ha un principale obiettivo per i candidati: ottenere la fiducia di elettori e sostenitori, per indirizzare il dibattito politico su temi divisivi o su interessi di un piccolo ma fondamentale gruppo di una contea di uno stato. Ma dal 9 novembre, quando si avranno i primi risultati del voto del midterm 2022, inizia la vera campagna elettorale per le presidenziali del 2024. E iniziarà nuovamente la raccolta dei fondi, che giocheranno ancora un ruolo crucial

 

LOBBY

Negli Stati Uniti ha assunto il significato attuale, cioè di pressione per ottenere una legge a favore, due secoli fa, all’inizio del 1800, quando l’appellativo di “lobby-agents” venne attribuito a tutti quelli che cercavano di fare pressione sui membri del Congresso di Albany, la capitale dello Stato di New York.

Una versione più romanzata vuole che il primo vero lobbista della storia americana fosse stato il presidente degli Stati Uniti Ulysses Grant, tra il 1869 e il 1877, quando soggiornava al Willard Hotel, a pochi passi dalla Casa Bianca, e nella “lobby” riceveva persone che chiedevano interventi particolari.

Vennero chiamati “lobbisti” e a lungo restò un termine nobile, considerato pilastro della democrazia, ma diventato negativo a causa di pratiche poco trasparenti. Proprio per salvare la natura di questo istituto democratico, il Congresso approvò nel 1946 una legge, il Federal Regulation of Lobbying Act, secondo cui “chiunque individualmente, o attraverso un loro agente o impiegato o altre persone di qualunque tipo, direttamente o indirettamente sollecita, raccoglie o riceve denaro o altre cose di valore da usare principalmente per aiutare l’approvazione o la bocciatura di qualsiasi legge da parte del Congresso” doveva entrare in uno “specifico Albo”.

Il lobbista aveva l’obbligo di dichiarare per chi lavorava e quello di redigere ogni quattro mesi un rapporto con informazioni sulla propria attività. Le notizie ancora oggi vengono raccolte nel Registro del Congresso, e possono essere usate in caso di omissioni o trasgressioni. La definizione su chi potesse fare il lobbista è arrivata, però, solo nel 1995 con il “Lobbying Disclosure Act”. Il lobbista è chiunque “impiegato o stipendiato tramite compensi finanziari o non per servizi che includano più di un contatto lobbistico”.

Per “contatto” si intende ogni comunicazione orale o scritta, anche per posta digitale, inviata a un rappresentante del Congresso o dell’amministrazione. Viene fissato anche un limite minimo di tempo per fare il lobbista: almeno il venti per cento del proprio orario di lavoro deve essere dedicato alla persona su cui fare lobby, in un arco di sei mesi. Tre sono i modi codificati per fare lobbying e, naturalmente, non è compresa la classica valigetta con i dollari.

La formula più diffusa prevede che il lobbista incontri il legislatore faccia a faccia con un appuntamento messo in programma per iscritto. È consigliato presentarsi con una sinossi di una pagina e prevedere che il tempo non superi i venti minuti. In alternativa, il lobbista può incontrare un membro dello staff del legislatore, procedura più consigliata perché aumentano le possibilità di essere ascoltati. Ma dipende dal tipo di azienda.

I lobbisti più esperti e conosciuti al Campidoglio, a volte ex politici, spesso analisti e top manager, possono saltare tutta la procedura e andare direttamente al sodo, saltando la trafila: possono muoversi nei corridoi di Capitol e intercettare il politico di riferimento. Tra le tecniche usate c’è quella di offrire un posto ben retribuito da lobbista a un membro dello staff del legislatore, in modo da invogliarlo a seguire con attenzione il caso. Ma poi per il passaggio da un ruolo all’altro servirà una finestra di almeno un anno.

Nel 2007, dopo lo scandalo Abramoff, un caso di corruzione che coinvolse una ventina di membri del Congresso, il presidente George W. Bush introdusse controlli più severi e l’obbligo per i lobbisti di dettagliare la propria attività ogni tre mesi, e non più quattro. Tutti i membri del Congresso da allora devono dichiarare il totale dei contributi elettorali ricevuti sia da privati sia da aziende. Inoltre non possono accettare regali e devono aspettare almeno due anni prima di passare, eventualmente, dall’altra parte e svolgere attività di lobby.

Fino al 2020, secondo un’analisi del Wall Street Journal, Facebook e Amazon sono state le prime aziende in Usa per attività di lobbying, con una spesa, ciascuna, tra i diciotto e venti milioni di dollari l’anno. Nel 2021 la spesa maggiore è stata fatta dalle Camere di commercio americane, con 66,4 milioni di dollari, seguite dal settore immobiliario, con 44 milioni, e quello farmaceutico e manufatturiero, 29 milioni. Meta ha speso 20 milioni, Amazon 19,3. 

STATI UNITI, LA REPUBBLICA DEGLI OLIGARCHI

Il sistema politico americano è gestito da una ristrettissima élite fondata sulla ricchezza e radicata nelle grandi famiglie. Il Congresso è centrale, le lobby pure, la Casa Bianca molto meno. È ora di riformare l’assetto ideato dai padri fondatori.

Piuttosto, nella parziale indifferenza dei media, negli ultimi anni si sono consumati sviluppi potenzialmente decisivi per il futuro della repubblica. Ad esempio la definitiva conquista della scena politica da parte degli oligarchi, termine solitamente tabù, e la nascita delle cosiddette primarie informali. Nel 2010 con la sentenza Citizens United vs. Federal Election Commission, la Corte suprema ha permesso a individui e a società private di finanziare ad libitum i singoli candidati, a patto che non esista diretto coordinamento tra di loro e che i fondi siano elargiti dai comitati politici (super pacs). Ne è scaturita un’immissione incontrollata di denaro nel processo elettorale e il depotenziamento dei piccoli finanziatori, che prima raggiungevano con facilità il tetto imposto dei 5 mila dollari. Proprio mentre la crisi economica accresceva il peso specifico dei super-ricchi con i 400 americani più abbienti che dal 2011 dispongono di un patrimonio superiore alla somma di quelli detenuti dal 50% dei restanti cittadini7. Così per scegliere su chi puntare da alcuni anni industriali e finanzieri, vicini sia ai repubblicani sia ai democratici, indicono convegni clandestini, rigorosamente chiusi al pubblico e ai media, in cui vagliano le posizioni di potenziali candidati.

I summit sono numerosi. I fratelli Charles e David Koch, industriali siderurgici e petroliferi, ogni sei mesi organizzano in California un esclusivo evento – denominato the seminars – al quale partecipano influenti esponenti del Grand Old Party come Jeb Bush, il governatore del Wisconsin Scott Walker, i senatori Rand Paul e Ted Cruz.

Nel corso di una tre giorni fitta di incontri e dibattiti si discute della possibilità di approvare sgravi fiscali in favore delle classi più agiate, di strategie per aumentare la produttività industriale e di commercio con l’estero. In ballo c’è quasi un miliardo di dollari che i Koch e i loro alleati promettono di sborsare soprattutto per sconfiggere Hillary Clinton. Lo stesso vale per il re dei casinò, Sheldon Adelson, che allestisce a Las Vegas le sue primarie personali. Ebreo ortodosso, ottavo uomo più ricco del mondo, alleato del premier Netanyahu, Adelson è soprattutto interessato a impedire la legalizzazione del gioco d’azzardo online, nonché ad affossare l’apertura obamiana all’Iran e il negoziato israelo-palestinese. Sul fronte democratico è Tom Steyer, manager di hedge funds con un patrimonio da 118 miliardi di dollari, a invitare ciclicamente i leader della sinistra nel suo ranch di Pescadero, in California, per testarne l’opinione su argomenti green. Dopo aver finanziato nel 2013 la vittoriosa corsa a governatore della Virginia di Terry McAuliffe ed essere stato sconfitto proprio dai Koch nelle ultime elezioni di metà mandato, malgrado una spesa di 70 milioni di dollari, in vista delle presidenziali Steyer ha intenzione di sborsare «una cifra illimitata» per sostenere esponenti ambientalisti. Secondo molti osservatori sarebbe stato lui nel 2014 a convincere Obama e i parlamentari liberal a respingere la realizzazione dell’oleodotto Keystone XL 10 che avrebbe dovuto condurre dal Canada al Texas il petrolio estratto da sabbie bituminose. Più discreto l’arcinoto finanziere George Soros, nel 2008 tra i principali sostenitori di Obama, che partecipa soltanto a incontri bilaterali.


Considerate le cifre offerte, mostrarsi in sintonia con i desiderata degli oligarchi può rivelarsi vitale. E una semplice gaffe può costare molto cara. È capitato al governatore del New Jersey, Chris Christie, in occasione del vertice organizzato da Adelson nel marzo 2014. Nel tentativo di conquistarsi le simpatie del padrone di casa, sul palco del casinò The Venetian Christie raccontò di un viaggio effettuato in Israele due anni prima. «Dopo essere stato a Gerusalemme, ho sorvolato i territori occupati [ sic ]. In quell’occasione ho potuto vedere con i miei occhi il clima ostile con cui Israele deve fare i conti ogni giorno», spiegò sicuro di blandire il suo interlocutore. Adelson però non ritiene la Cisgiordania un territorio occupato, né tantomeno crede che i coloni israeliani siano stanziati su terre altrui. E da allora ha preso le distanze dal governatore. Stessa sorte per Rand Paul che lo scorso gennaio, durante il summit voluto a Rancho Mirage in Califor­nia dai fratelli Koch, ha prima proposto di concludere un accordo commerciale con la Cina, quindi ha criticato l’attività di lobbying condotta dalle grandi industrie. Accusato di lesa maestà, Paul è finito all’ultimo posto nel sondaggio realizzato ad uso interno durante l’incontro 11.

4. Lo strapotere dei grandi finanziatori sta inevitabilmente rivoluzionando la competizione elettorale. Gli effetti del fenomeno sono parsi evidenti già durante le presidenziali del 2012. Per la prima volta i super-ricchi spesero più dei partiti e lo scontro tra magnati provocò lo sconvolgimento delle consultazioni repubblicane, con conseguente indebolimento di Mitt Romney. Le primarie sono governate da dinamiche predefinite e di norma solo pochi candidati le affrontano con il reale obiettivo di vincere.

A differenza di quanto avviene in Europa, negli Stati Uniti la campagna elettorale si svolge preminentemente dal basso verso l’alto e la costruzione sul territorio nazionale di una capillare rete di comitati organizzativi richiede notevoli mezzi finanziari. Così i politici che non hanno a disposizione tali risorse scendono in campo per ragioni accessorie: acquisire un profilo nazionale, pubblicizzare iniziative extraelettorali, oppure per offrirsi al futuro vincitore come potenziali vicepresidenti. Nel 2012 pressoché ogni sfidante di Romney era in corsa esclusivamente per ottenere notorietà. L’ex speaker della Camera, Newt Gingrich, da anni lontano dalla scene, puntava a incrementare le vendite dei suoi libri; l’ex senatore della Pennsylvania, Rick Santorum, intendeva invertire la parabola discendente della sua carriera; l’imprenditore Herman Cain semplicemente sperava di accedere alla ribalta nazionale. A dimostrazione del tenore assai poco bellicoso della contesa, all’inizio della campagna elettorale Gingrich abbandonò comizi e fundraising per concedersi una crociera nel Mare Egeo con sua moglie Calista. Mentre Herman Cain, in barba alle più elementari regole dello scontro elettorale, non si premurò neanche di comprare il silenzio di una sua storica amante che, come facilmente prevedibile, alcuni mesi dopo riemerse dall’oblio. Nessuno immaginava, tantomeno i diretti interessati, che i miliardari della destra avrebbero adottato candidati tanto improbabili, inondandoli di denaro. In particolare Adelson versò 21 milioni di dollari a un super pac vicino a Gingrich che improvvisamente iniziò a negare l’esistenza della Palestina e che, grazie agli inaspettati fondi, si aggiudicò il cruciale Stato della Carolina del Sud. Solo dopo essersi recato personalmente a Las Vegas, Romney riuscì a convincere Adelson ad abbandonare Gingrich, promettendo al magnate di convertirsi nel più ostinato difensore d’Israele. Tuttavia il finanziere del Wyoming Foster Friess, con alcuni milioni di investimento, consentì all’italo-americano Santorum di aggiudicarsi ben undici Stati (tra questi i rilevanti Iowa e Colorado) e di prolungare le primarie fino a metà aprile.

Anatema per qualsiasi aspirante alla Casa Bianca, che in condizioni normali punta a chiudere la contesa per le idi di marzo, così da smettere i panni del leader radicale e guadagnare il centro per affrontare il rivale dell’altro partito. Costretto a devolvere tempo e risorse in una gara ritenuta vinta in partenza, nei mesi successivi Romney non riuscì a reinventarsi. Anche perché intanto la macchina elettorale di Obama aveva raccolto oltre un miliardo di dollari, grazie ai finanziamenti di molti oligarchi vicini alla sinistra. Tra gli altri: Jeffrey Katzenberg, amministratore delegato della Dreamworks; Fred Eychaner, grande editore televisivo di Chicago; Irwin Jacobs, fondatore di Qualcomm, la multinazionale specializzata nella produzione di semiconduttori.

«I super-ricchi si stanno comprando il sistema politico americano esattamente come gli oligarchi russi hanno comprato il loro»12, ha sentenziato l’autorevole editorialista del Washington Post Dana Milbank. La svolta appare inarrestabile. In vista del 2016 i concorrenti in corsa per la presidenza sono impegnati in questi mesi ad assicurarsi i finanziatori più munifici. I giochi non sono ancora decisi, ma alcuni accoppiamenti sono già ufficiali. George Soros, che nel 2014 è stato nominato tra i manager del super pac Ready for Hillary, e tutti i principali finanziatori di Obama si sono schierati al fianco della Clinton. Tra questi proprio Katzenberg, Eychaner e Jacobs;

il produttore televisivo e in passato proprietario di Abc Family Haim Saban; il manager di hedge funds James Simons; il costruttore Eli Broad; l’ex partner di Goldman Sachs, Daniel Neidich; la produttrice della serie televisiva Homeland, Marcy Carsey. Hanno invece abbracciato la candidatura di Jeb Bush: l’albergatore Gordon Sondland; il patron dei New Jersey Jets, Woody Johnson; l’ex padrone dei Seattle Mariners, George Argyros. Al contrario, Wall Street si divide equamente tra Jeb e Hillary. I fratelli Koch, almeno inizialmente, finanzieranno Bush junior, Scott Walker e Marco Rubio, che ha dalla sua anche Norman Braman, proprietario di un’immensa catena di concessionarie d’auto. Mentre Robert Mercer, un manager di hedge funds del New Jersey, ha scelto il senatore del Texas Ted Cruz. Infine Adelson e Steyer si riservano il diritto di schierarsi in una fase successiva della competizione.

5. Benché la quantità di soldi destinati alle consultazioni elettorali sia cresciuta esponenzialmente, tanta disponibilità non ha risolto l’annoso problema dei debiti dei candidati. Coloro che aspirano alla presidenza accumulano passivi rilevanti nel tentativo di centrare l’obiettivo, rendendosi ricattabili o autoeliminandosi dalla competizione. Si tratta di parcelle, conti e bollette in favore di consulenti, strateghi, società di telecomunicazioni e immobiliari di cui i candidati si sono serviti in campagna elettorale e che non hanno saldato perché nel frattempo hanno esaurito i fondi. I lunghi e imbarazzanti contenziosi legali che ne derivano riguardano alcuni dei nomi più noti della politica nazionale. Bill Clinton deve ancora estinguere un debito di 100.080 dollari risalente alla campagna di rielezione del 1996 e costituito dall’onorario di tre società di comunicazione 13. John Edwards, sconfitto nel 2004 alle primarie democratiche da John Kerry e poi da lui selezionato per il ruolo di vicepresidente, a tutt’oggi ha un passivo di 331 mila dollari, di cui 226 mila da versare allo studio legale Ryan, Phillips, Utrecht & McKinnon. L’ex sindaco di New York Rudy Giuliani, presentatosi senza successo alle primarie repubblicane del 2008, solo cinque anni dopo ha saldato un buco da 2,7 milioni di dollari. A pretendere il dovuto erano i principali operatori di telefonia mobile d’America (342 mila dollari); numerose agenzie immobiliari (107 mila dol­lari); altre società specializzate in comunicazione (112 mila dollari) e fornitori di vario tipo. Lo stesso vale per Hillary, che nel gennaio del 2013, con il pagamento di un’ultima pendenza da 245 mila dollari alla società di consulenza politica di New York Penn, Schoen & Berland, ha finalmente estinto un debito da circa 20 milioni di dollari contratto durante le consultazioni democratiche del 2008. Negli anni la Clinton si è industriata per colmare il disavanzo. Nel dicembre del 2011 mise in vendita il merchandising della sua avventura elettorale: t-shirt, spille, poster, autografi e il dvd dell’orazione che pronunciò alla convention di Denver. Nel 2012 cedette per 50 mila dollari la lista dei suoi contatti all’attuale senatrice del Massachusetts, Elizabeth Warren. Nell’èra di Citizens United il problema s’è addirittura aggravato. Durante le presidenziali del 2012 molti candidati hanno rischiato di finire letteralmente sul lastrico. Convinti di avere una disponibilità finanziaria illimitata, ma impossibilitati dalla legge a utilizzare direttamente i soldi versati dai finanziatori esterni, in molti casi i potenziali presidenti hanno speso nettamente più di quanto potessero. Newt Gingrich è tuttora chiamato a ripianare un passivo di 4,8 milioni accumulato quasi tre anni fa, quando finì sui giornali l’umiliante vicenda di un assegno di appena 500 dollari staccato a suo nome e non incassato perché scoperto 14. Newt deve oltre un milione alla Moby Dick Airways, una compagnia di voli charter; 407 mila alle guardie del corpo; 280 mila a uno studio di consulenza legale; 181 mila a una società di pubbliche relazioni; 165 mila ad alcune concessionarie pubblicitarie; 36 mila dollari agli spedizionieri di FedEx 15. A sua volta Rick Santorum deve colmare un ammanco da oltre 600 mila dollari, composto per 430 mila dollari dalla parcella di una società di consulenza politica della Pennsylvania, la Brabender & Cox. Mentre Michele Bachmann, ex deputata del Minnesota, lo scorso anno ha finalmente ripagato un rosso da oltre un milione di dollari, accumulato in appena un mese di primarie. Spesso il debito incide sensibilmente sull’esito delle elezioni, con i candidati in bolletta che barattano il proprio sostegno con il pagamento dell’ammanco da parte dello sfidante più munifico. Nel 2008 Hillary Clinton promise di appoggiare Obama anche perché l’entourage del futuro presidente promise di impegnarsi finanziariamente in suo favore. Una promessa che Barack ha mantenuto nel corso degli anni. Allo stesso modo nell’estate del 2011 l’ex governatore del Minnesota, Tim Pawlenty, sposò la candidatura di Romney dopo che questi si intestò gran parte del suo debito (330 mila dollari su 454 mila totali). Solo Santorum nell’aprile del 2012 respinse la corte dell’ex governatore del Massachusetts, che era pronto a staccare un generoso assegno, perché in cambio chiedeva un ruolo in una futura amministrazione repubblicana.

 


6. In contemporanea con l’ascesa degli oligarchi s’è compiuta la trasformazione della politica statunitense in una questione tribale. Uno sviluppo che pre­clude l’accesso ai parvenus e riconosce a pochissimi l’elettorato passivo per le massime cariche. I padri fondatori si schierarono da subito contro la nascita delle dinastie – George Washington temeva a tal punto d’essere scambiato per un monarca che rifiutò il titolo protocollare di Sua Altezza (His Highness) – ma l’influenza dei grandi clan è ormai smisurata. La famiglia dei Frelinghuysen a parte brevi interruzioni ha avuto un proprio esponente eletto al Congresso dal 1793 ad oggi, ovvero da quando il generale rivoluzionario Frederick Frelinghuysen divenne senatore per lo Stato del New Jersey. I Kennedy negli ultimi cinquant’anni hanno avuto un loro discendente al Campidoglio in ogni legislatura, tranne la terzultima (dal 2013 è deputato per il Massachusetts Joseph P. Kennedy III, nipote di Robert). Al momento ci sono al Congresso 39 figli di ex parlamentari e tanto il primo cittadino della California, Jerry Brown, quanto quello di New York, Andrew Cuomo, sono eredi di altrettanti governatori (Pat e Mario).


La deriva clanica emerge con ulteriore chiarezza nella corsa alla presidenza. Alcuni dati sono sbalorditivi. Tra il 1976 e il 2016 avrà sempre corso alla presidenza o alla vicepresidenza il figlio o il nipote di un senatore. Dal 1928 i repubblicani sono riusciti a conquistare la Casa Bianca solo se nella proposta elettorale era presente un Bush o un Nixon. E con la candidatura di Jeb Bush, fratello di George Walker, nel 2016 sarà la settima volta nelle ultime nove elezioni che un Bush si presenta per la carica di presidente o di vice. Troppo perfino per la matriarca Barbara Pierce Bush, moglie di George Herbert Walker, che nel 2013 si è espressa contro il proposito di suo figlio Jeb. «L’America è una grande nazione e ci sono molte famiglie importanti, non siamo solo quattro dinastie. Mi rifiuto di accettare l’idea che non ci siano altre persone meravigliose che dovrebbero ambire ad essere elette»16, ha dichiarato con inaspettato candore. Peraltro nelle primarie repubblicane Jeb sfiderà Rand Paul, figlio del ginecologo Ron che ha corso per la Casa Bianca in tre occasioni, e in caso di nomina potrebbe vedersela con Hillary Clinton, altro membro di una storica dinastia. «Siamo onesti, la presidenza non è una corona che possono tramandarsi due sole famiglie. È un’istituzione straordinaria e sacra. Abbiamo bisogno di un leader che si batta finalmente contro gli interessi dei ricchi e dei potenti»17, ha dichiarato sul tema l’ex governatore del Maryland, Martin O’Malley, tra i pochi esponenti privi di legami familiari.

Se la politica è retta dalle grandi dinastie, da decenni la sfera amministrativa è appannaggio dei lobbisti. Contrariamente a quanto accade in Italia, dove il potere burocratico è gestito dai dipendenti statali, negli Stati Uniti gli unici che tecnicamente conoscono le questioni parlamentari e la macchina governativa sono gli agenti di pressione che svolgono le loro funzioni nell’interesse dei clienti. Di frequente senza neanche esplicitare il mestiere e muovendosi dietro le quinte. Con evidente annullamento della responsabilità personale e politica. A determi­narne l’affermazione è stato l’approccio al tempo stesso sprovveduto e utilitaristico adottato proprio dai framers e dai leader storici della nazione. In particolare, a porre le basi della situazione attuale è stato il presidente Andrew Jackson. Con l’obiettivo di ripagare chi ne aveva sostenuto l’ascesa e impedire il radicarsi di una classe dirigente eminentemente tecnica che avrebbe abitato a lungo la pancia dello Stato, nel 1829 Jackson inaugurò lo spoils system, la pratica con cui il leader appena eletto assegna cariche e poltrone ai membri del suo partito. Ma la riforma ha prodotto una conseguenza inaspettata. Estromessi dai palazzi del potere, nel corso del tempo i funzionari e i parlamentari più competenti si sono trasformati in lobbisti e hanno continuato a gestire gli affari governativi dall’esterno. Per conto del settore privato. Nello specifico, i lobbisti realizzano analisi e papers su cui deputati e senatori formano la loro opinione; redigono le proposte di legge; introducono i consiglieri elettorali a dossier esclusivi; guidano i congressisti neoeletti, provenienti dalla provincia e a digiuno di politica federale; realizzano incontri tra parlamentari di partiti diversi; segnalano l’apprezzamento e il malcontento delle grandi aziende; fungono da intermediari tra gli oligarchi e i candidati; conducono sondaggi d’opinione; consigliano presidenti e ministri; custodiscono la memoria storica della politica americana. La loro rilevanza è testimoniata dal mutevole atteggiamento adottato in materia da Obama. Convinto d’essere alla testa di una rivoluzione culturale e scarso conoscitore dell’amministrazione pubblica al termine di una sola legislatura trascorsa in Senato, nel 2008 Barack promise ufficialmente di ridurne l’influenza. «Chiuderemo la porta girevole che permette ai lobbisti di entrare nel governo per poi sfruttare le loro conoscenze in ambito privato» 18 , proclamò in campagna elettorale. Tuttavia, conquistata la Casa Bianca e chiamato a governare il paese, il neopresidente ne comprese immediatamente l’indispensabile apporto. Tra il 2008 e il 2013 il suo governo ha assunto 119 lobbisti19 , provenienti dai principali studi specializzati di Washington e da aziende quali Google, Microsoft, Yahoo, Raytheon, Goldman Sachs, Wellpoint, AT& T, Verizon, Sprint, Monsanto.

 

 

Detentori di un potere inossidabile e opaco, gli agenti di pressione perseguono sottotraccia l’utile dei loro clienti grazie al lassismo delle leggi che ne dovrebbero regolare l’operato. Tanto che oggi la stragrande maggioranza agisce in maniera abusiva. In base al Lobbying Disclosure Act, la legge del 1995 che richiede ai professionisti di registrarsi presso la Camera dei rappresentanti e di rivelare clienti e onorario, è da ritenersi lobbista soltanto chi lavora almeno un giorno a settimana per i suoi committenti; guadagna più di 2.500 dollari nell’arco di tre mesi; intrattiene rapporti con più di un contatto politico. Analogamente è un’azienda di lobbying solo quella che assume professionisti registrati. Inoltre, prima di migrare nel settore privato un ex parlamentare deve attendere due anni. La palese ingenuità della legislazione e le modiche sanzioni comminate ai trasgressori (multe da poche migliaia di dollari) inducono gli operatori a muoversi nell’oscurità, così da sfuggire ai controlli e allo scrutinio dell’opinione pubblica. Per questo ufficialmente il numero dei professionisti e gli introiti delle società del settore continuano a diminuire. Stando ai dati della Camera, nel 2014 le società specializzate avrebbero sborsato 3,2 miliardi di dollari, una cifra in costante diminuzione dal 2008, e i lobbisti attivi sarebbero appena 11.781, il dato più basso dal 200120. Ma se si calcola il cosiddetto outside lobbying, l’attività condotta dai professionisti informali, la spesa del settore si aggira intorno ai 9 miliardi di dollari e Washington è invasa da oltre centomila tra lobbisti e società invisibili. Tra i cosiddetti agenti stealth ci sono nomi molto influenti. Come Chris Dodd, che, conclusa nel 2011 la sua carriera di senatore per lo Stato del Connecticut, appena dieci settimane più tardi è divenuto presidente della Motion Picture Association of America, la potentissima lobby di Hollywood. O come Tim Pawlenty che dal 2013 partecipa attivamente ai lavori della commissione Finanza della Camera, benché sia ufficialmente un semplice consulente bancario al soldo di un gruppo privato. O come Tom Daschle, già capogruppo dei democratici al Senato, che ha deciso di registrarsi come lobbista solo nel 2015, dopo undici anni di onorata carriera nel ruolo di intermediario tra la corporate America e i palazzi della politica. Così nel gergo di Washington il Lobbying Disclosure Act è per tutti la scappatoia Daschle (Daschle loophole). Peraltro l’esodo di burocrati e congressisti verso le società di pressione sembra destinato a ingrossarsi ulteriormente: dal 1979 lo staff parlamentare è diminuito del 20%, accrescendo ancor di più l’utilità degli esterni, e solo nell’ultima legislatura sono diventati lobbisti due terzi dei congressisti che hanno lasciato il Campidoglio. Ad attirarli sono i compensi elevatissimi, la minore pressione mediatica e lo straordinario potere di cui possono disporre. Negli anni celebri lobbisti sono divenuti protagonisti assoluti della vita politica. Specialmente John Podesta, fondatore dell’omonima società di lobbying , in passato collaboratore proprio di Tom Daschle, capo di gabinetto con Bill Clinton, consigliere speciale con Obama e ora responsabile della campagna elettorale di Hillary Clinton in vista del 2016.

I leader sono inefficaci e poco amati, ma gli americani restano fedeli all’idea onirica della nazione, al mito della città sulla collina. L’accesso alla politica è interdetto da barriere classiste e dinastiche, ma i cittadini credono nella loro eccezionalità, attestata dallo status riconosciuto al paese a livello internazionale. Finché l’America conserverà il primato globale, resisterà anche il suo modello civile. I padri fondatori ne erano consapevoli. Già nel 1783 George Washington definì gli Stati Uniti un impero necessariamente in ascesa (a rising empire22, tracciando la traiettoria di una nazione che avrebbe dovuto puntare allo zenit per legittimare se stessa. E fare a meno della politica.


Analizzando, anno per anno, dal 2009 al 2019, tutti i report trimestrali riguardanti
l’azienda presa in considerazione, è stata riscontrata una maggiore somma investita in
alcune issues e leggi specifiche.
Le issues più prese in considerazione sono state:

  • CPI, con un investimento di $ 10.133.501;
  • TAX, con un investimento di $ 9.749.995;
  • TEC, con un investimento di $ 5.679.909;
  • CPT, con un investimento di $ 5.619.571.
    Le leggi, invece, maggiormente interessanti sono state:
  • Cyber Privacy Fortification Act con $ 748.322;
  • Open Government Data Act con $ 586.312 ;
  • MarketPlace Fairness Act con $ 481.440 ;
  • Transportation Housing and Urban Development and Related Agencies
    Appropriations Act con $ 404.872.

COME FUNZIONA LA LOBBY SIONISTA NEGLI STATI UNITI

L’importanza della comunità israelitica in America non consiste nel peso elettorale e, a sorpresa, nemmeno in quello finanziario. In realtà i gruppi di pressione hanno successo perché i loro obiettivi convergono in buona parte con quelli dell’establishment.

PER CAPIRE IL PROBLEMA, PERMETTETEMI di semplificarlo. Gli Stati Uniti sono una plutocrazia in un senso molto preciso: l’acquisizione di potere nella politica americana ha bisogno del pagamento di enormi somme di denaro. Nessuno viene eletto a una carica senza sostanziali investimenti che, per le campagne elettorali degli oltre seicento deputati e dei cento senatori, arrivano alla cifra di centinaia di milioni a testa. Durante e dopo le campagne per eleggere i membri del Congresso, pagamenti, sia legali che illegali, vengono raccolti e consegnati nella forma di «contributi alla campagna» e in forme più indirette per tutto il tempo in cui il politico rimane nella sua carica legislativa o esecutiva.

Il denaro per la politica viene ottenuto in due modi. Nel primo caso, arriva direttamente da individui ricchi, vicini a uno dei due partiti, oppure da coloro i cui interessi d’affari – o i cui interessi politici, come nel caso dei sionisti – hanno qualcosa da guadagnare dall’elezione di un particolare uomo politico. Nel secondo caso, il denaro giunge da potenti banche d’affari (business corporation banks), cartelli del petrolio e così via, oppure da enti morali che, nella maggior parte dei casi, organizzano delle lobby o gruppi di pressione per influenzare le due entità legislative (Congresso e Senato) e l’esecutivo (la Casa Bianca e i membri del governo).

La lobby sionista lavora, come vedremo, attraverso ambedue i canali.

Lo stesso sistema di finanziamento opera a livelli inferiori – quelli delle assemblee legislative dei cinquanta Stati dell’Unione; e anche al livello degli esecutivi statali, cioè dei governatori e del loro governo. Un terzo, ma importante livello è quello delle città, dei loro sindaci e funzionari comunali.

A ogni livello, le lobby sono al lavoro, impegnate nel loro compito principale di ottenere vantaggi per i propri clienti e distribuire denaro, direttamente e indirettamente, agli americani eletti ai pubblici uffici, siano essi ebrei o non-ebrei. Le lobby incanalano le donazioni delle aziende e anche parte dei contributi individuali che, comunque, sono spesso consegnati direttamente, di mano in mano.

Il presidente in carica, Bill Clinton, fa parte del Partito democratico. Per la prima volta in molti decenni, l’opposizione, cioè il Partito repubblicano, controlla entrambe le assemblee legislative. I repubblicani controllano anche la maggioranza degli Stati. Ciò significa che i lobbisti devono ora spendere più denaro e bilanciare i pagamenti a democratici e repubblicani.

Tra le migliaia di grandi e piccole lobby, cinque predominano in modo netto: l’industria pesante aeronautica e degli armamenti che coordina la propria attività col Pentagono; l’industria petrolifera, collegata a un settore bancario internazionale; gli agricoltori; la National Rifle Association, che rappresenta i produttori e gli amatori delle armi leggere, usate a fini di difesa o per la caccia; la lobby sionistaebraica. C’è un sesto concorrente, che segue a poca distanza gli altri e forse è il più importante di tutti: la lobby delle banche americane. Però questa lobby, per i suoi legami continui con la Federal Reserve, non ha necessità di un’attività lobbistica giornaliera e lavora sull’economia attraverso la Federal Reserve e tramite la pressione bancaria di Wall Street.


Miliardi che tornano in America

La lobby, anzi le lobby ebraiche, sono sioniste. Devono essere così: gli ebrei in quanto tali non sono una delle fonti di entrate principali per pubblici funzionari e legislatori, ad eccezione di città come Los Angeles e, soprattutto, New York. In passato, si sarebbe potuta aggiungere a questa breve lista anche Miami, in Florida, ma in questo Stato meridionale i cubani, altri latino-americani e anche la mafia hanno rimpiazzato l’anziano contingente ebraico della popolazione locale.

La principale fonte finanziaria della lobby deriva, un po’ paradossalmente, dal fatto che gli Stati Uniti assicurano un sostegno economico estremamente importante a Israele, sia in aiuti militari che in fondi per lo sviluppo. Questo denaro ritorna, per la maggior parte, negli Stati Uniti sotto forma di pagamenti israeliani all’industria pesante aeronautica e d’armamenti e ad altre aziende di consulenza e industriali, e anche nella forma di remunerazioni ai propri alleati nel Pentagono e nelle altre agenzie governative.

In altre parole, la lobby sionista ha successo soprattutto perché riceve risorse dal complesso militare-industriale e dai suoi alleati tra politici, deputati e senatori; ma non perché gli ebrei aiutano a eleggere i politici (eccetto che a New York, Los Angeles e qualche altra località minore).

Il mito di una pressione elettorale ebraica di origine esclusivamente americana può essere chiaramente demolito dai fatti: nel Nord-America ci sono tra i quattro e i cinque milioni di ebrei; meno della metà nutre interesse per le questioni relative alla propria appartenenza, mentre i restanti sono stati assimilati nella maggioranza non-ebraica del paese. Questi dati vanno confrontati con quelli dell’ultimo censimento ufficiale che ha registrato un totale di 263 milioni di americani.

Inoltre, solo il 30% di tutti gli americani che si registrano come elettori si sono presi la briga di partecipare alle ultime elezioni presidenziali. È quindi chiaro che il voto ebraico a livello nazionale non ha forza sufficiente per decidere i risultati.

D’altra parte, circa 16 miliardi e mezzo di dollari sono concessi ogni anno a Israele dall’amministrazione e da enti collegati al governo, in forme dirette e indirette. Questi finanziamenti comprendono 3,1 miliardi per spese militari che, in grandissima parte, tornano ad aziende come la Lockheed e la Boeing.

Altri 1,2 miliardi vengono dati a Israele, ufficialmente per «obiettivi di sviluppo» e, ancora una volta, un gran numero di aziende americane sono coinvolte in queste transazioni.

Una somma non dichiarata, che si stima aver raggiunto tra i quattro e i cinque miliardi di dollari, è stata fornita segretamente dalla Cia e dalle altre agenzie di spionaggio americane per operazioni di destabilizzazione in Africa e nel Terzo Mondo, nel quadro della guerra fredda. In particolare l’Africa, e in misura minore l’America Latina, sono state regioni in cui Israele ha offerto una consulenza sul riciclaggio del denaro (il Panama di Noriega), la propria esperienza tecnologica (il monitoraggio computerizzato sui villaggi indiani in Guatemala, l’addestramento di servizi segreti alleati) e piani per corrompere i politici locali. Tutte queste attività venivano finanziate con fondi del governo statunitense, e i lavori garantivano sostanziosi profitti collaterali agli israeliani. I finanziamenti americani assicuravano alla Cia e ad altri settori della comunità di spionaggio americana entrature nella politica del Terzo Mondo che erano inibite agli Stati Uniti per ragioni di politica interna (ad esempio l’avversione della lobby dei neri americani per lo spionaggio in Africa). Ma, soprattutto, hanno permesso alla comunità dell’intelligence americana di gonfiare i propri bilanci e mostrare quanto fosse necessario finanziare agenzie così importanti per il destino della nazione.


 

L’Asia centrale prende il posto dell’Africa

Dal collasso dell’Unione Sovietica in poi, questi fondi non sono, come si potrebbe credere, stati tagliati, ma piuttosto sono stati rimpiazzati da finanziamenti relativi al disciolto impero sovietico, in particolare al Kazakhstan, l’Uzbekistan, il Tadžikistan, l’Azerbajdžan e altri paesi dell’Asia centrale ritenuti bersagli del fondamentalismo iranico-islamico. Oggi molto denaro viene speso per operazioni segrete contro l’Iran, il Sudan e i guerriglieri che combattono il governo turco.

Nello scorso agosto, dichiarazioni rilasciate dal nuovo direttore (ebreo) della Cia, John Deutch, e da altri dirigenti dell’Agenzia hanno preannunciato un aumento della «Humint» (Human intelligence, spionaggio basato su fonti umane, contrapposto a quello basato sulle macchine, n.d.r.) nella quale le agenzie israeliane eccellono sin dagli anni Cinquanta. Si dice infatti che sia stato un agente israeliano ad aver trasmesso a Tel Aviv, e da là sia giunto poi a Washington, il testo segreto del discorso di Chruščëv al XX Congresso del Partito comunista sovietico, nel quale venivano per la prima volta denunciati i crimini di Stalin.

E infine, è spuntata «l’industria della pace», cioè i finanziamenti resi necessari (e concessi dagli Stati Uniti) per sostenere il processo iniziato a Oslo, che Israele chiede vengano assegnati direttamente ai palestinesi (ma che transitano e sono collegati col sistema bancario e monetario israeliano) e indirettamente a Israele, attraverso speciali esenzioni sulle esportazioni israeliane negli Stati Uniti.

Una parte sostanziale di questi fondi viene riciclata non solo attraverso banche di proprietà o legate a Israele presenti negli Stati Uniti, ma anche da altre istituzioni bancarie americane, che rappresentano variegati interessi e settori finanziari. I «Finanziamenti Oslo» sono così diventati una parte sostanziale dei giochi di prestigio monetari dell’economia internazionale sotterranea, in buona parte controllata da Wall Street e dalla City di Londra.

In altre parole, il nuovo sostegno fornito a Israele aggiunge nuovi e importanti canali ai giochi speculativi internazionali che drenano fondi dalla parte creativa e costruttiva dell’economia mondiale e utilizzano l’inflazione e la svalutazione delle varie monete – dollaro compreso – per accumulare profitti «aridi», cioè non produttivi e antindustriali.

È superfluo aggiungere che i funzionari del Pentagono, del Dipartimento del Tesoro, della Cia e delle altre agenzie continuano le loro lucrose carriere nel settore civile, dopo essere andati in pensione con largo anticipo. Questi pubblici funzionari ottengono tre diversi profitti quando agevolano il fluire degli aiuti a Israele: da parte degli israeliani, dall’amministrazione e, più tardi, dalle ditte, industrie e banche americane.

Le cose sono arrivate al punto che un membro del Congresso ha osservato scherzando che sarebbe più economico fare di Israele il cinquantunesimo Stato della Federazione.


 

Due casi particolari: Lubavitch e Kahane

La congregazione degli zeloti di Lubavitch, tradizionalmente parte dell’ebraismo ortodosso, è cresciuta fino a diventare una setta messianica mondiale che crede fermamente nel prossimo ritorno dalla morte del proprio defunto leader. Prima della sua morte, circa due anni fa, si diceva che il rabbino Lubavitch fosse immortale.

I membri di questa congregazione, molti dei quali vivono a Brooklyn, vengono identificati con l’estremismo nazionalista israeliano: essi credono che Dio stesso proibisca di cedere una qualsiasi parte della storica Eretz Israel conquistata dagli israeliani e ritengono, sebbene i suoi membri si rifiutino di prestare il servizio militare e ne siano esentati, che l’esercito israeliano compia il volere divino. Oltre a ciò, i seguaci di Lubavitch appoggiano i coloni zeloti che compiono a loro avviso un sacro dovere. Dato che tutti i membri della setta votano come un sol uomo, la loro influenza è grande in quelle aree degli Stati Uniti nelle quali sono presenti. I seguaci di Lubavitch, come diversi altri ebrei ortodossi-americani, sono estremamente razzisti e spesso si impegnano in conflitti con le comunità limitrofe nere, ispaniche o asiatiche, dai cui membri cercano di comprare le case, per creare blocchi omogenei sempre più grandi di seguaci della setta. Il sindaco di New York, ma anche il presidente degli Stati Uniti, hanno riconosciuto il potere politico di questa setta e una medaglia del Congresso è stata data alla memoria del rabbino Lubavitch. Mentre era in vita, il rabbino non solo era ricevuto da presidenti, ma erano i presidenti stessi ad andare a trovarlo per chiedere il suo appoggio.

I seguaci di Lubavitch sono ricchi e lavorano sodo. Sono una setta motivata e la loro influenza sta crescendo tra i ragazzi ebrei ortodossi in cerca di ideali. Sono una parte indipendente ma importante della lobby ebraica.

Per quanto riguarda la Jewish Defense League, fondata dal defunto rabbino Meir Kahane (che andò in Israele a costituire un partito «neonazista» poi messo al bando, denominato Kakh o «Così!», prima di essere assassinato a New York da un fondamentalista islamico egiziano), ha organizzato operazioni terroristiche da una parte all’altra degli Stati Uniti, compresa una bomba in un ufficio dell’Aeroflot che ha ucciso alcuni impiegati sovietici. La Jewish Defense League venne fondata come milizia contro i neri e oggi sostiene le frange più estremiste, e talvolta terroriste, dei coloni di Hebron e Gerusalemme. Negli Stati Uniti, organizza campi di addestramento paramilitari e minaccia individui e organizzazioni ebraiche di tendenze liberal.

Anche se la Jewish Defense League non è, in senso stretto, parte della lobby sionista americana, essa ha avuto contatti con molte organizzazioni dello spionaggio americano, compresa l’Fbi, per sventare le iniziative degli elementi antisemiti. A un certo punto, l’organizzazione ha infiltrato i gruppi neonazisti per conto dell’Fbi, ma poi è stata sconfessata dall’agenzia federale a causa degli atti di provocazione e di terrorismo a cui avevano partecipato gli infiltrati ebrei. Dopo la partenza di Kahane per Israele, la lega si è divisa in due gruppi. Entrambi appoggiano le frange neonaziste dei coloni più estremisti della West Bank, molti dei quali sono emigrati nelle colonie direttamente dagli Stati Uniti, col pieno appoggio della Agenzia ebraica controllata dal governo israeliano.

La crescente, anche se ancora limitata, influenza dei seguaci di Kahane tra gli ebrei americani deriva in parte da ragioni sociologiche. Per tre generazioni, molti ebrei sono giunti in America come immigrati della classe lavoratrice; la seconda generazione, quella del «mio figlio dottore», era liberal e sosteneva le lotte per l’eguaglianza dei diritti negli anni Cinquanta e le campagne contro la guerra del Vietnam negli anni Sessanta.

La terza generazione è invece, in generale, conservatrice e di destra. Al tempo stesso, i giovani ebrei non hanno trovato alcuna buona causa di sinistra o progressista, dato che oggi le università americane sono state in gran parte private dell’educazione e dell’attività politica. L’unica causa radicale con cui possono oggi identificarsi sono gli insediamenti e la conquista di Eretz Israel / Palestina. Gli unici con cui possono simpatizzare sono i loro fratelli che hanno scelto la propria Aliyà – viaggio verso l’alto – andando in Israele. In mancanza di educazione politica, sono vittime del proprio idealismo giovanile.

In America esiste una terza lobby estremista sionista. Non è per nulla ebraica, bensì composta da fondamentalisti evangelici, che in totale sono negli Stati Uniti circa sessanta milioni, i quali credono che Israele sia l’incarnazione delle profezie bibliche: la guerra in Medio Oriente viene considerata come conflitto tra Goga e Magoga (Bene e Male), che precede la fine del mondo e la seconda venuta, come profetizzato nel Nuovo Testamento.

I fondamentalisti evangelici spendono grandi somme di denaro in Israele, ma anche nel Libano meridionale dove hanno gestito per lungo tempo una radio filoisraeliana. Hanno creato un’«ambasciata cristiana» a Gerusalemme e sostengono i gruppi della destra politica israeliana, a partire dall’ala destra del Likud, guidata da Ariel Sharon. Questi, tra l’altro, è membro di alcune tra le più prestigiose e ultraconservatrici istituzioni di ricerca americane.


 

Conclusione: denaro e spaccatura

Secondo ricercatori ebrei americani antisionisti, circa un miliardo di dollari viene speso ogni anno dalla lobby ebraico-americana, ma anche direttamente da Israele, per finanziare personaggi del potere legislativo ed esecutivo in tutti gli Stati Uniti.

Ciò corrisponde quasi al centesimo alla media annuale dei finanziamenti raccolti in tutto il paese dall’United Jewish Appeal for Israel.

Qui, come nel campo dello spionaggio e in quello delle questioni militari, il sistema statunitense e quello israeliano sono in simbiosi totale. Il denaro per Israele, stanziato nei bilanci proposti dalle varie amministrazioni e approvato con risoluzioni dal Congresso, va bene per gli affari americani – e ritorna, in grandi fette, al sistema americano.

Questo denaro viene reinserito nella struttura politica americana attraverso una delle due grandi branche principali della lobby sionista: i Pac (Political Action Committee, comitati di azione politica) ebraici. In teoria un comitato potrebbe solo dare diecimila dollari per una sola volta a un singolo legislatore o uomo politico. Ma non c’è nulla nella legge che proibisca la costituzione di dieci o cento comitati a favore di un solo politico. Inoltre, non vi è alcuna norma che impedisca a un comitato di finanziare la moglie o i figli di un politico o di un legislatore. Infine, tra i beni offerti rientrano anche opportunità di lavoro, oppure «conferenze» tenute dai politici a organizzazioni ebraiche per cinque o diecimila dollari a discorso.

L’altra branca della lobby ebraica è formata da gruppi di propaganda come l’Aipac, il cui compito è di darsi da fare a favore di un candidato e contro un altro, a sostegno di una legge della Camera o del Senato oppure contro. L’Aipac e una legione di lobby meno conosciute sono riuscite, negli anni Ottanta, a battere figure prestigiose come quella del senatore Charles Percy, presidente della Commissione Esteri del Senato. In tempi più vicini a noi, nel Senato si è formata una maggioranza di 96 membri (su un totale di 100) automaticamente favorevole a qualsiasi cosa l’Aipac chieda di votare. Quest’anno, l’Aipac ha chiesto di approvare il trasferimento dell’ambasciata americana da Tel Aviv a Gerusalemme. Questa era una delle principali richieste della destra ebraica e israeliana. Purtroppo, mentre l’Aipac aveva convinto il Senato ad approvare lo spostamento dell’ambasciata, il governo israeliano era impegnato a giustificare la decisione di annettere altre terre arabe attorno a Gerusalemme per colonizzarle. Rabin in persona ha chiesto ai membri più rappresentativi del Senato americano di non votare per questo trasferimento; ma la risoluzione è comunque passata.

L’incidente illustra l’obbedienza non-così-cieca dei politici americani all’Aipac e, su un piano più ampio, alla lobby ebraica, un’obbedienza generata dall’avidità personale e dagli interessi economico-politici.

Rabin, attraverso i suoi aiutanti più moderati, ha cercato di portare l’Aipac sotto il controllo del Partito laburista, ma per il momento questi tentativi sono stati infruttuosi. Su ogni questione pratica la lobby sionista è oggi divisa tra sostenitori e detrattori di Rabin, questi ultimi simpatizzanti del Likud. I lobbisti iperestremisti – seguaci di Kahane, ortodossi e altri ancora – continuano a sostenere con efficienza e dovizia di mezzi l’estrema destra israeliana, influenzando con le proprie azioni legislatori e politici americani, sia direttamente che attraverso le pressioni delle Chiese evangeliche estremiste, soprattutto nel Sud.

La vicenda dell’ambasciata americana illumina la spaccatura che si sta creando nella comunità degli ebrei americani e, di rimbalzo, nell’apparato della lobby. Mentre negli anni Settanta e Ottanta le organizzazioni ebraiche di destra chiedevano aspramente che nessun ebreo americano criticasse il governo di Begin e Shamir, le stesse organizzazioni hanno deciso oggi di fare lobbismo contro la politica del governo israeliano. Una lettera settimanale di Benyamin Nethanyahu, leader del Likud, viene mandata via fax direttamente agli uffici dei membri del Congresso e critica, con parole pesanti, il «tradimento» di Rabin e il processo di pace di Oslo. Lasciando da parte ciò che ognuno può legittimamente pensare della questione.

Inoltre, in aperta contraddizione con gli accordi dell’United Jewish Appeal, sia la Jewish Defense League che i coloni e il Likud hanno creato delle proprie lobby parallele, finanziano organizzazioni americane e, in alcuni casi come l’Aipac, si sono impadroniti delle lobby ebraiche tradizionalmente fedeli al governo israeliano in carica. Una spaccatura si è chiaramente evidenziata nell’apparato ebraico-americano che gestisce il potere di influenza tra ebrei simpatizzanti della destra e conservatori. Questa, nell’universo ebraico, rappresenta un turning point, i cui risultati finali non possono essere ancora previsti.

Di certo, in ogni caso, la lobby sionista continuerà ad esistere e operare con successo negli Stati Uniti, poiché è necessaria non solo ad Israele ma anche ad alcune potenti strutture di potere americane, così come a singoli legislatori. Dopo tutto, la lobby sionista non chiede nulla che il sistema americano non desideri – per i propri, «gentili» motivi.

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