POLIFILIO

June 5, 2025
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“L’universo è come il sogno di un rapporto sessuale con una donna; poiché attraverso l’imma- ginazione di qualcosa di irreale noi immaginiamo un’emozione reale” (Yogavasishtha, III, 3, 17)

La Morte si rivolse a lui dicendo: “Dimmi, mio ​​signore, dove si trovano le azioni del Brahman nato dall’Aria”; al che Yama, dopo una lunga riflessione, rispose come segue.

Del sogno iniziatico di Polifilo e di alcuni suoi paralleli orientali  “L’universo è come il sogno di un rapporto sessuale con una donna; poiché attraverso l’immaginazione di qualcosa di irreale noi esperiamo un’emozione reale” (Yogavasishtha, III, 3, 17)

L’analisi letteraria dell’Hypnerotomachia Poliphili ha avuto nel recente passato un andamento solo episodico, ed è stata spesso superficiale, ma è andata intensificandosi proprio in questi ultimissimi anni.

La causa di tanta pregressa disattenzione è in gran parte determinata dall’incerta attribuzione di quest’opera 1 .

Ma, secondo noi, ancor di più deve attribuirsi alla sua mancata collocazione nel giusto contesto storico e culturale, che è poi quello del notevole sviluppo delle correnti esoteriche occidentali che si verifica in Italia, e più in particolare nel Veneto, nella seconda metà del XV secolo 2 .

In particolare va ricordato che proprio la tradizione del sogno veridico 3 , forse addirittura del sogno lucido 4 , quale strumento privilegiato di conoscenza e di esperienza iniziatica, è presente fin dalle origini sia nell’Ermetismo che nell’Alchimia.

Ad esempio nel Poimandres, uno dei più importanti testi ermetici, è lo stesso Ermete Trismegisto ad affermare che

“Il sonno del corpo era divenuto attenta lucidità dell’anima, lo stare cogli occhi chiusi era a sua volta diventato un vero e proprio vedere”

(1987, 67). E Zosimo di Panopoli, uno dei primi alchimisti greci, vissuto verso la fine del III secolo, sostiene che la dottrina alchemica è stata rivelata e appresa grazie a rivelazioni che possono prodursi nel corso di differenti visioni.

Quel che è assai più notevole è la loro straordinaria somiglianza con la filosofia dei brahmani. Raffrontando i libri ermetici col Bhagavad-Gita, si trovano le stesse idee manifestate quasi con le stesse parole (16).

E non potremmo in alcun modo spiegarci tali analogie -mancando ogni prova positiva di relazioni tra l’India e l’Egitto -se non ammettessimo che le idee espresse nel Poimandres siano di origine antichissima, fedeli espressioni di quei principi che si ritrovano identici in tutte le religioni idealistiche.

E la stessa sorprendente somiglianza riscontriamo tra il Poimandres e il Vangelo di San Giovanni, per quel che riguarda il Verbo. Nel Poimandres è detto: “Questa luce sono io, l’Intelligenza, il tuo Dio che precede la natura umida uscita dalle tenebre, ed il Verbo luminoso che emana dall’Intelligenza è il Figlio di Dio”.

E nel Vangelo di San Giovanni: “Nel principio era il Verbo ed il Verbo era presso Dio ed il Verbo era Dio”. Ed anche, nel Poimandres: “Il Verbo di Dio si sollevò ben tosto dagli elementi inferiori nella pura creazione della natura e si unì al pensiero creatore”. E in San Giovanni: “Per mezzo di lui (del Verbo) furono fatte le cose: e senza di lui nulla fu fatto di ciò che è stato fatto”. 

Da ciò il Ménard crede di poter asserire che le due opere siano quasi contemporanee. E, data l’identità dei concetti, quest’asserzione potrebbe sembrar giusta.

Senonché, sopra uno dei muri del tempio di File e sulla porta di Medinet Abou, quattordici secoli avanti, una mano egizia aveva scritto: “E’ lui il sole (cioè il Verbo) che ha fatto tutto ciò che esiste e nulla è stato mai fatto senza di lui” (17) parole quasi identiche a quelle di San Giovanni e del Poimandres.

Bisogna dunque credere che San Giovanni abbia attinto dagli scritti ermetici depositari degli antichi principi-quello spirito di simbolismo per il quale egli si lascia tanto indietro gli altri vangeli. 

“Ai tempi del regno del (faraone) Sostris visse Hermes Trismegisto l’egiziano. Era un uomo temibile nella saggezza, che disse che il nome del creatore indicibile consisteva di tre persone ma di un’unica divinità. Così gli Egizi lo chiamarono

 

“Hermes Trismegisto”. Hermes è stato citato nei suoi numerosi trattati ad Asclepio per aver detto quanto segue sulla natura di Dio: “A meno che il Signore di tutti non avesse previsto che io rivelassi questo insegnamento, tu non saresti ora dominato da un desiderio così ardente di indagare su questa questione.

 

Non possiamo fornire tali misteri agli iniziati. Ora ascolta con la tua coscienza: c’era una sola luce intelligibile prima della luce intelligibile; esiste sempre, una Coscienza che brilla dalla Coscienza, e non c’era nient’altro tranne l’unità di questo Essere, sempre in se stesso e sempre contenente tutte le cose dalla stessa Coscienza e Luce e Spirito.

 

Al di fuori di questa Coscienza non c’è Dio, né angelo, né demone, (e) nessuna altra realtà, perché egli è signore di tutti e padre e Dio; e tutte le cose sono in lui e sotto di lui. Perché quando la sua Parola uscì, egli era supremamente perfetto, fertile e creativo nel regno della natura che era esso stesso fertile. Quando la Parola cadde nell’acqua fertile, rese l’acqua gravida.” Dopo aver dichiarato questo, pregò:

 

“Lo giuro per te, Cielo, opera saggia di un grande Dio, sii propizio! Lo giuro per te, Voce del Padre che egli pronunciò per primo quando fissò tutto l’universo con la sua volontà.” Questa voce del Padre, che egli pronunciò per primo, è la sua Parola unigenita.

 

Questi passi, raccolti anche dal santissimo Cirillo nel suo Contro Giuliano l’Imperatore, sono addotti per dimostrare come prova più precisa che anche Hermes Trismegisto, pur ignorando il futuro, confessò la singola sostanza della Trinità.”

n molte fonti egizie la creazione della vita coinvolge tre elementi: la creazione di un corpo, il trasferimento a quel corpo di una parte dell’essenza divina del creatore e l’animazione del corpo dal respiro di vita…

Il secondo elemento, il trasferimento dell’essenza divina, portò alla fine al concetto che tutte le divinità, o addirittura tutti gli esseri viventi, non erano solo create da un creatore trascendente, ma erano in un certo senso forme del creatore…

Il creatore era talvolta definito “Colui che si fece in milioni” o “Colui che si fece in milioni di Dei”. La creazione poteva essere vista come un processo di differenziazione, in cui una forza originale veniva gradualmente divisa (senza necessariamente diminuire se stessa) negli elementi diversi che componevano l’universo… Prima che inizi la creazione non c’è divisione tra i sessi.

Il creatore sembra includere sia i principi maschili che femminili. Le divinità creatrici erano comunemente chiamate “il padre e la madre di tutte le cose”…

Non bisogna dimenticare che è proprio a Treviso, la città dove viveva il frate domenicano Francesco Colonna (1433-1527), presunto autore dell’Hypne- rotomachia, che viene stampata tra il 1471 ed il 1475, dal tipografo Gerardo de Lisa, la prima traduzione del Poimandres eseguita, nientemeno, da Marsilio Ficino.

Un testo che difficilmente poteva sfuggire alla vastissima erudizione del Colonna, e che può averlo quindi direttamente influenzato sul piano dottrinale, stimolandolo a scrivere un romanzo nel quale il protagonista viene iniziato ai misteri di Venere Iperurania attraverso il sogno.

Come scrive Mino Gabriele (2004, XX-XXI): “Una simile attività onirica può essere debitamente accostata alle esperienze estatiche dell’epopteia misteriosofica e ultramondana dei Gentili.

Ragguardevoli sembrano in proposito certe corrispondenze tra la vicenda di Timarco, narrata da Plutarco nel De genio Socratis (589f-592e), e quella di Polifilo in HP, pp. 456-60: entrambi, in stato di visione catalettica, mentre, addormentati, sognano secondo l’usanza dell’incubazione (si veda HP, p. 19), provano il distacco dell’anima attraverso la sua fuoriuscita dal cranio e il suo ritorno:

la testa, il luogo più eminente del corpo, è la sede naturale dell’anima secondo la fisiologia platonica (Timaeus, 44d, 90a) 6 .

Il Colonna semina il romanzo di tali, specifici riferimenti alle tecniche meditative e immaginative, come agli stati psicofisici che ne compartecipano, da far ritenere ch’egli traduca nel testo esperienze mistico-simboliche non solo letterarie, bensì dirette e per- sonali, frutto di concrete e assidue pratiche interiori, del resto compatibili con la quotidiana religiosità di un frate.

Nella sua ponderosa ricerca sul sogno in India e dintorni, Wendy Doniger si è particolarmente soffermata anche sul tema del ‘sogno condiviso’, ricordando a questo riguardo esempi sia indiani che occidentali.

Ovviamente quelli più interessanti ai nostri fini, riguardano in particolare i racconti indiani di amanti che si sognano l’un l’altro 9 .

Ed anche il sogno di Polifilo è condiviso in gran parte con Polia, l’amata defunta. Si tratta di un motivo narrativo apparentato a quello che viene denominato dal folklorista Stith Thompson come il “futuro sposo (o sposa) rivelato in sogno” (D 1812.3.9), e che è a sua volta connesso al motivo del “giovane fa la statua di una fanciulla e cerca una fanciulla simile alla statua” (T 11.2.1.1) 10 .

Secondo la Doniger (2005, 98) la variante di quest’ultimo motivo definita da Thompson come gli “amanti si incontrano in sogno” (T 11.3.1), sarebbe finora attestata solo nel folklore indiano.

E comunque è soprattutto in India che tutti i temi letterari relativi al sogno e al sognare non solo sono presenti, ed ampiamente sviluppati, ma anche spesso intrecciati o imbricati l’uno nell’altro come in scatole cinesi.

E sempre conformemente a quei presupposti metafisici, cui abbiamo pocanzi accennato, secondo i quali “Dio è dentro il sognatore in modo simile a quello in cui (nei miti) gli amanti sono l’uno nell’altro o (nello scenario psicoanalitico) l’analista è dentro al paziente.

Dio è il testimone di tutti i sognatori ed è il sognatore del sogno versale, all’esterno; ma egli partecipa eroticamente al sogno anche all’interno. 

È un attore del dramma, un personaggio del sogno, ma ne è anche l’autore, è anche l’analista del sogno.” (Doniger 2005, 117-118).

È proprio questo ruolo di regolatore divino del sogno che è sostenuto dalla dea Venere nell’Hypnerotomachia, talvolta in collaborazione col figlio Cupido: ella è infat- ti la costante testimone delle pene d’amore di Polia e Polifilo;

ed è la dea ex machina delle vicende che si susseguono nel sogno, anche attraverso la media- zione delle sue sacerdotesse e delle innumeri ninfe che costellano la sua corte;

ed infine manifesta essa stessa la propria passione amorosa in due delle scene finali del romanzo, prima congiungendosi con Marte, e quindi recandosi a visitare in lacrime la tomba dell’amante prediletto, Adone

La vicenda di Polia sacerdotessa di Diana che deve venir meno al suo voto di castità e ai suoi doveri sacerdotali per accedere a una superiore iniziazione ai misteri d’Amore, acquisendo così l’immortalità spirituale sia per sé che per il suo amante, ha un suo suggestivo parallelo nella leggenda buddhista giappone- se dell’abate di Shiga, che è narrata in un testo anonimo del quattordicesimo secolo 12 .

In essa, l’abate di un monastero buddhista, già molto vecchio e noto per la sua profonda devozione al Buddha della ‘Terra Pura’, ammira casual- mente una bellissima concubina imperiale mentre viene trasportata sul suo baldacchino, e se ne innamora all’istante, senza riuscire più ad allontanarne dalla sua mente l’immagine e il pensiero.

Anche lui, esattamente come Polia, non riesce più a concentrarsi né sul mantra d’invocazione né sulla sacra immagine del Buddha, perché ad essa si sostituisce ogni volta, inesorabilmente, quella della concubina.

Si deciderà quindi a recarsi per alcune notti di seguito nei pressi della di lei abitazione, restando immobile a guardare in direzione della sua camera.

Attira così l’attenzione dei servi della donna, che le riferiscono questa strana situazione, spiegandole anche di chi in realtà si tratta.

La concubina, che non riesce a spiegarsi il perché di questo comportamento da parte del monaco, finisce con l’esserne profondamente sconvolta e infine sedotta, al punto di offrirglisi senza riserve. In realtà al monaco è sufficiente questa profferta d’amore per liberarsi definitivamente di questa sua ultima ma estrema ossessione terrena.

Si ritira nuovamente in convento e di lì a poco muore attingendo il Nirvana. A sua volta la concubina, segnata per sempre da questa insolita espe- rienza d’amore, abbandona la sua vita alla corte imperiale, prende i voti e si fa monaca fino alla fine dei suoi giorni 13 .

Nell’uno come nell’altro caso l’amore terreno si dimostra così come il supremo mezzo di conseguimento spirituale, al di fuori e al di sopra di qualunque regola religiosa.

È davvero curioso ricordarsi a questo punto, che l’autore dell’Hypnerotomachia era, assai probabilmente, un frate.

Un sogno erotico d’iniziazione Il ‘sogno nel sogno’ che Polifilo ci descrive quale io narrante del romanzo, costituisce un perfetto esempio di sogno erotico d’iniziazione, anche se particolarmente elaborato, il cui archetipo è riconducibile ai sogni iniziatici che sono stati documentatati dai ricercatori in ambito sciamanico.

Alcuni di essi sono stati descritti da Mircea Eliade nel suo studio ormai classico 14 . Lo sciamano viene visitato in sogno, talvolta durante una malattia, da una donna-spirito che diviene la sua “sposa celeste”, e come scrive Eliade (1983, 101):

“È naturale che più di una volta l’inserirsi di una «sposa celeste» nell’esperienza mistica dello sciamano sia accompagnato da emozioni sessuali”.

Anche nell’Induismo, nel Buddhismo 15 e nel Sufismo islamico viene ritenuto possibile ricevere delle iniziazioni o degli insegnamenti esoterici in sogno 16 .

Nel caso di Polifilo, come abbiamo visto, l’iniziatrice è verosimilmente una donna defunta, quindi anche lei una donna-spirito e una “sposa celeste”.

Una donna forse immaginaria, ma senza poter escludere del tutto che lo spunto della sua invenzione sia stato un amore sfortunato di Francesco Colonna. In ogni caso, come scrive Mino Ga- briele,

“L’Imaginatio costituisce, per il nostro innamorato, anche un necessario veicolo erotico, in quanto prezioso legame mentale con la sua amata: difatti, secondo la trentesima regula amoris di Andrea Cappellano,

«Verus amans assidua sine intermissione coamantis imaginatione detinetur»”

 , e ancora “Nell’Hypne- rotomachia è Venere-Voluptas, l’eros cosmogonico nella sua sinergia mondana e celeste, a manifestarsi in mille aspetti attraverso il simbolismo di oggetti, architetture, trionfi, personificazioni, miti che ne rilucono, pur in diverso grado, la potenza e l’opera. Un simile contesto di religio Veneris viene pertanto scan- dito dalla luminosità delle «cose» incontrate da Polifilo man mano che dalla periferia corporea si avvicina psichicamente alla visio soprannaturale” (Gabriele 2004, XXIV). 

Come si è detto, Polia si presenta a Polifilo sotto l’apparenza di una ninfa, cioè di un essere psichico mitologicamente legato all’elemento acqua 18 .

Polifilo non sembra ricordare nel corso del sogno, ma da quanto si può ricostruire dal testo, Polia è in realtà già morta, ed è quindi doppiamente una donna-spirito e una “sposa celeste”.

Fra l’altro il ruolo di semplice ninfa che Polia mantiene nella prima parte del viaggio che compie assieme a Polifilo, coincide con il carattere più marcatamente erotico degli episodi che lo costellano.

Perché si tratta appunto di quello psichismo inferiore che riguarda da un punto di vista funzionale la più bassa delle due Veneri di Platone, secondo la nota dottrina autorevolmente riformulata in quel periodo da Marsilio Ficino 19 .

E d’altra parte, secondo Ariani (2004, XXXIX e XLI), “nessun platonico del Quattrocento avrebbe potuto sottoscrivere una simile, perentoria scelta di campo a favore della voluptas come telos, come obbiettivo finale di un viaggio sapienziale”, e

“Né Ficino né Pico, pur sensibili ai problemi di un’autorizzazione della voluptas nel sistema del platonismo cristiano e affascinati dalla possi bilità di rendere presentabile l’eros con l’accordo tra le due Veneri, avevano pensato di porre la Mater Cupidinis come finale quies di un viaggio sapienziale dell’anima.”

L’anno seguente Tongjung Thuchen era in ritiro, quando una sera tre dakini andaro- no a trovarlo.

Avevano delle sciarpe verdi, con cui toccarono i suoi piedi. Egli perse conoscenza per un po’, risvegliandosi in un sogno. Vide tre grotte che si affacciava- no a est, davanti alle quali si stendeva un bel lago.

Entrò nella grotta centrale, il cui interno era splendidamente decorato con fiori. Incontrò tre maestri, ciascuno dei quali era vestito in modo diverso, con abiti da iniziazione esoterica.

Erano circondati da bellissime dakini, che suonavano strumenti musicali, danzavano, facevano offerte, pregavano ed eseguivano altre attività sacre. (Wangyal 1999, 69)

Il giovane, rimasto ancora una volta solo, vede avvicinarsi un’altra graziosa ninfa, con in mano una fiaccola.

È Polia, ma Polifilo non la riconosce. Sarà la sua guida nel regno di Venere, rivelandogli la propria identità nel corso di un rito sacrificale che si svolge nel tempio di Venere Genitrice.

Dopo quel sacrificio, Polia invita Polifilo a visitare le rovine di un tempio dedicato a Plutone e Proserpina, e quindi un singolare cimitero, ove sono sepolte le coppie di amanti sfortunati.

È come se Polia volesse gradualmente ricordare all’amante che anche lei è già da tempo discesa agli Inferi. E infatti Polifilo, che resta ancora inconsapevole, è preso da un inspiegabile presagio di morte dell’amata.

Arrivano finalmente al mare, dove la nave di Cupido li attende per condurli all’isola di Citera, dimora della dea Venere.

La struttura simbolica, e quasi mandalica 32 , della sua ‘città onirica’ è stata molto bene descritta da Mino Gabriele (2004, XVI): .

L’apparente complessità di Citera è semplice. Lo scheletro portante di questa impo- nente planimetria si fonda infatti su essenziali simbolismi numerologici e geometrici:

l’isola è circolare e suddivisa in tre anelli concentrici, nel mezzo un anfiteatro anch’esso circolare al cui centro sta il fonte di Venere. Il cerchio o la circolarità rap- presentano architettonicamente il cosmo, il suo incessante divenire, ma esprimono anche il moto dell’anima del mondo, il suo fecondo, ordinato perdurare nella crea- zione.

Citera è l’eutopia di Venere generativa e ferace sovrana del giardino monda- no, su cui tiranneggia l’eros vulgaris.

Gli anelli concentrici sono, al loro interno, caratterizzati da spazi quadrangolari: la forma quadrata costituisce una figura mundi, in quanto compiuta immagine dei quattro orizzonti, come pure esprime la tipica spa- zialità propria dei giardini d’amore. Al centro di tutto si erge il fonte di Venere a pianta ettagonale, perfetto simbolo di armonia cosmica e nuziale.

I numeri che cifrano di anagoci contenuti questi spazi sono soprattutto il tre, allusivo della triplice via o vita amorosa, il sei, sacro a Venere, il sette, significativo degli accordi micro- macrocosmici regolati da Venere Genetrix, il dieci e il venti: la perfezione e il suo multiplo.”

Sull’isola di Citera si celebrano finalmente le nozze in divinis di Polia e Polifilo, con la benedizione di Venere e Cupido.

Come ricordavamo poc’anzi, si tratta di qualcosa che ricorda molto da vicino il cosiddetto “matrimonio gandharvico” così come viene descritto nella letteratura indiana 33. I due sposi si recano quindi in visita al sepolcro di Adone, lo sfortunato amante mortale di Venere.

A parti invertite, il mito dell’amore fra Venere e Adone viene qui assunto dal Colonna quasi ad archetipo divino dell’infelice storia d’amore di Polia e Polifilo.

Le ninfe che li hanno sino a quel punto accompagnati, chiedo no allora a Polia di raccontare gli esordi della loro storia d’amore, e così termina il primo libro dell’Hypnerotomachia ed inizia il secondo, di cui si è già detto nel precedente paragrafo.

Il sogno ermetico e alchemico della donna-pietra

Continua a presto

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