DonneSumere2

January 21, 2024
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Molto più a oriente dell’Egitto, nella regione meridionale della Mesopotamia, dove il Tigri e l’Eufrate si versano nel golfo Persico, fin dal 4000 a.C. si trovano stanziati i Sumeri, popolo evoluto e progredito a cui dobbiamo l’invenzione della scrittura. Prima con i Sumeri, poi con gli Assiri e i Babilonesi, la civiltà mesopotamica vive per oltre tre millenni.

I Sumeri, la più antica civiltà fiorita in Mesopotamia, danno vita alle prime città-stato, allo sviluppo dell’irrigazione e dell’agricoltura, alla scrittura cuneiforme (che precede i geroglifici egizi) e alle prime scuole dell’umanità, gettano le fondamenta della matematica e della geometria, inventano l’orologio e il calendario di 12 mesi che usiamo ancora oggi. Con essi si verifica la transizione dal matriarcato al patriarcato. La donna gode di una posizione di tutto rispetto, ma in seguito, con la crescente militarizzazione della società, perde il prestigio che aveva e viene relegata su un gradino inferiore.

Per poter inquadrare e rendere comprensibili fasi particolari della vita delle donne, come la avanzata maturità e la vecchiaia, è necessario chiarire preliminarmente alcuni tratti salienti della condizione femminile nel mondo mesopotamico. Postando in continuazione Gli articoli da 44 in poi 

<Donne Sumere>

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nel Vicino Oriente Antico la famiglia costituisce essenzialmente un meccanismo per il sostentamento di persone non produttive –bambini piccoli, malati, anziani– il cui peso viene così diviso fra i membri attivi. I bambini rappresentano il peso meno gravoso, dal momento che già intorno ai 5 anni possono entrare nel mondo del lavoro incrementando rapidamente la loro produttività; ogni risorsa a loro destinata assume quindi il carattere di un investimento.

Il problema maggiore è costituito dai malati cronici e dagli anziani, la cui produttività è inevitabilmente destinata a diminuire, con un incremento progressivo della loro dipendenza. Il modello matrimoniale “mediterraneo”, in cui la donna ha generalmente una decina di anni meno del marito –che abbiamo visto essere ampiamente diffuso nella cultura mesopotamica–, porta ad una situazione in cui l’uomo, invecchiando, si trova ad avere una moglie più giovane che può accudirlo, mentre la moglie può contare a sua volta sulle cure dei figli ormai adulti.

Va considerato che i doveri dei figli non si esauriscono con la morte dei genitori: nelle società semitiche antiche uno dei principali doveri del figlio maschio primogenito è invocare lo spirito del padre e presiedere al culto degli antenati;

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un dovere che, almeno in certi ambiti del mondo mesopotamico, in mancanza del maschio può essere assolto dalla figlia femmina. Considerati parte integrante dell’accudimento, senza alcuna necessità, quindi, di essere sanciti da un testo scritto, i doveri post mortem sono scarsamente documentati. Se ne trovano menzioni episodiche in contratti di adozione, od altro, dove talvolta vengono esplicitamente citati tra i doveri dell’adottato come clausole per poter accedere all’eredità. 
In un atto di adozione, ad esempio, è ricordato il dovere per la figlia adottiva di «libare acqua quando ella [la madre] muore».

 

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Più frequenti possono essere i riferimenti indiretti in testamenti, e simili, dove si presentino casi particolari relativi alle spese da sostenere per i riti funebri.

Così, la signora Ishtarlamassi, vedova di un mercante assiro e sposata in seconde nozze con un uomo dell’Anatolia, in presenza della sorella e di altri testimoni assegna sul letto di morte il suo denaro ai figli 

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Ovviamente anche fuori dal mondo mesopotamico: si pensi, ad esempio, ad Ahat, nell’omonimo mito ugaritico, o ad Abramo, nella Bibbia. 46 BE 14 40 linee 13 ss. 132 te avuti dal primo marito), precisando che le singole parti andranno

decurtate successivamente di 27 sicli d’argento, spesi dal marito anatolico per il lamento funebre e la sepoltura, in realtà incombenza dei figli stessi.

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In nessuna società del Vicino Oriente Antico la legge svolge un ruolo centrale per la cura degli anziani, come fra i Sumeri, considerata un obbligo sociale che riguarda innanzitutto il privato.

 

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La legge non è assente: al contrario, aiuta a definire gli obblighi degli individui privati, secondo la concezione comunemente condivisa. Il Prologo del Codice di Lipit-Ishtar recita: «Ho fatto accudire il figlio dal padre; ho fatto accudire il padre dal figlio». Le norme giuridiche sono essenziali.

Il sistema di sostentamento basato sulla famiglia poggia su due elementi: da un lato, l’amore e l’affetto naturali; dall’altro, la pressione sociale esterna. In alcuni casi, però, la pur forte efficacia di questi due elementi può venir meno: o, nella maggior parte dei casi, per sopravvenute questioni ereditarie, oppure perché, per morte o assenza dei figli, la famiglia manca del minimo di membri produttivi necessari per poter svolgere le sue funzioni sociali di assistenza.

La legge, allora, interviene fornendo, nel primo caso, una cornice coercitiva che rafforza gli obblighi sociali, nell’altro, sostituti artificiali per una famiglia “disfunzionale”. Cura familiare 1.

La cornice coercitiva Lo stesso diritto proprietario era strutturato in modo da fornire una cornice di rinforzo agli obblighi familiari. Concentrando la proprietà nelle mani delle generazioni più anziane, ma al tempo stesso dando al proprietario il parziale potere di ridistribuire le quote di potenziale proprietà fra gli eredi, la legge fornisce alle generazioni più giovani un potente incentivo economico per l’adempimento degli obblighi sociali di sostentamento degli anziani.

Il diritto a diseredare, pur limitato, è per lo più giustificato da un mancato sostentamento. In alcuni casi il comportamento è considerato così riprovevole.

Verosimilmente, mentre i figli abitano ad Assur, Ishtar-lamassi vive in Anatolia con il nuovo marito; ed è lui che, essendole vicino, dovrà farsi carico dell’organizzazione del rito funebre che in realtà spetterebbe ai figli. In alcuni luoghi, come ad esempio a Kanesh, dove era costume seppellire i familiari all’interno delle abitazioni, l’eredità della casa paterna comportava automaticamente l’adempimento del culto dei defunti.

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Sono ncora assenti pratiche come il prelievo fiscale per le persone sopra i 60 anni, noto nell’Egitto romano. ” richiedere, ad esempio, che l’estromissione dalla casa sia accompagnata da uno schiaffo della vedova, madre naturale o adottiva, resa padre e madre dal marito.

In generale dai testamenti o dagli accordi di eredità emerge un grande rispetto dovuto alla donna/madre. Il testo seguente è in questo senso emblematico: H. durante la sua vita ha fatto sedere i suoi servi, maschi e femmine, e ha stabilito la sorte di sua moglie, dicendo: «Ora, la figlia di Y. è mia moglie. Ella è padre e madre della mia casa, e i miei tre figli la sostenteranno come loro madre. Chiunque di loro non la sostenti come sua madre, rinuncerà alla sua eredità. Ella può schiaffeggiarlo, può gettarlo sulla strada. Ora, il letto con la sua [coperta?] appartiene alla figlia di Y. […].

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C’è un’attenzione da parte della persona più anziana a conservare i diritti sulla proprietà che lascia in eredità: in molti contratti il testatore ne resta proprietario finché è vivo. In altri casi egli si riserva l’usufrutto delle proprietà fondiarie.

Spesso è presente una clausola espressa, che obbliga i figli al sostentamento del genitore ancora vivo dopo la morte del padre o della madre, e la divisione patrimoniale è rinviata alla morte di questo o questa. D’altra parte l’autorità parentale rimane immutata fino alla morte. Sono ignoti casi di interdizione per vecchiaia.

Nei testi più antichi ricorre l’espressione «mangiare» una determinata proprietà, nel significato di “avere in usufrutto”.

Una donna senza figli riceve dai genitori una casa che può tenere per tutta la vita; alla sua morte questa andrà al fratello, che nel frattempo deve fornirle regolarmente una certa quantità di orzo e olio.

I problemi nascono se mancano i figli; in questo caso, gli appetiti sull’eredità da parte degli altri membri maschi della famiglia rende necessaria la stipula di accordi particolari, che conosciamo dai documenti; tuttavia il criterio corretto di trasmissione della proprietà è chiaro a tutti. 2.

I sostituti artificiali della famiglia In Mesopotamia, il primo responsabile della cura dei genitori anziani è il figlio, forse seguito dal fratello. E ciò rispecchia l’ordine di successione fissato dalla legge sull’eredità.

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Fuori da questo primo cerchio ristretto ve n’è un secondo i cui membri possono ugualmente ereditare, ma solo per esplicita volontà del testatore: figlie, nuore, generi. Così, in mancanza di appartenenti al primo cerchio, vengono designati eredi quelli del secondo, in cambio dell’accudimento. All’interno di questo sistema vige una certa flessibilità. In un testamento, lo zio lascia alla nipote la sua quota di eredità della propria madre, anziana, purché la nipote la accudisca e la sostenti in vece sua.

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Se mancano anche gli appartenenti al secondo cerchio, si ricorre ad una pratica di sostituzione estremamente diffusa: quella dell’adozione. Tutto un sistema di contratti ruota intorno al problema della trasmissione dell’eredità con il vincolo dell’accudimento (un problema, quello dell’accudimento durante la vecchiaia che, di fatto, riguarda principalmente le donne).

E l’adozione ne è lo strumento più diffuso, soprattutto nel caso di coppie o vedove senza figli, o di donne non sposate, generalmente sacerdotesse.

L’adozione riproduce le conseguenze legali della relazione genitori-figli, istaurando un circolo virtuoso di dare-avere. L’adottato, che può essere un bambino o un adulto (forse in relazione all’età dell’adottante), eredita la proprietà dei genitori adottivi, inscrivendosi, così, nella linea ereditaria: oltre ai beni familiari, egli eredita anche l’obbligo alla continuazione del culto dei defunti. Il culto degli antenati garantisce la continuità della stirpe;

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includere un esterno nella famiglia, attraverso il matrimonio o l’adozione, costituisce in certi casi la garanzia di una continuità familiare e delle cure post mortem: «E se mia figlia K. muore, A., mio figlio adottivo, non deve assolutamente lasciare la mia casa, poiché deve aver cura dei miei dei e dei miei morti».

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Una vedova, divenuta povera e indebitatasi, non avendo cognati che la aiutino, sposa sua figlia ad un uomo che diviene il coerede della casa dove abitano, in cambio del sostentamento. Se inadempiente, l’uomo è obbligato a spogliarsi dei diritti sulla casa, lasciando simbolicamente l’abito su di un panchetto e andandosene dove vuole.

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In certi casi l’adottato è una persona destinata a svolgere un lavoro esterno da cui l’adottante può ricavare sostentamento. Si dà anche il caso di una donna che adotta una prostituta a questo fine. Il possesso di schiavi, soprattutto per le donne, è più facilmente gestibile rispetto a quello delle terre.

Essi garantiscono ad un tempo l’accudimento e la possibilità di entrate dirette derivanti dalla vendita del loro lavoro. Una pratica diffusa anche fuori dalla Mesopotamia: nell’Antico Egitto una signora educa uno schiavo alla musica per garantirsi un sostentamento in vecchiaia.

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Spesso si mira a legare uno schiavo o un creditore con l’incentivo vincolante di una manumissione alla morte del padrone, una pratica che dall’epoca di Ur III (alla fine del III millennio a.C.) arriva fino alla Grecia, nella figura del paramone. Oltre che per le vedove, come abbiamo visto, la pratica dell’adozione è ampiamente documentata anche per un’altra categoria di donne: le sacerdotesse.

La maggior parte dei contratti di adozione di epoca paleo-babilonese sono stipulati da sacerdotesse nadœtum. Si tratta di adozioni particolari, una sorta di adozione secondaria, in cui la persona resta anche figlia dei genitori naturali. Per lo più, al fine di conservare la proprietà –di solito consistente nella casa della nadœtum all’interno del tempio, e in proprietà fondiarie– nella linea di successione familiare, l’adottato è una nipote, monaca anch’essa; più raramente l’erede è un’altra monaca più giovane.

Anche in questi casi, nei contratti vengono spesso specificate le quote annuali o mensili di cereali e lana da versare in cambio dell’eredità. È abbastanza diffuso che alcune monache accumulino le eredità di più donatrici. La, o le eredità ricevute si aggiungono al patrimonio personale della nadœtum, una sorta di corrispettivo della dote, o la sua quota di eredità, assegnatole dal padre, e generalmente dato in gestione ai fratelli in cambio di razioni. In CH §178 una sacerdotessa ha ricevuto un dono dal padre; se i fratelli non coltivano il campo e l’orto dandogliene i frutti, lei potrà farlo coltivare ad altri: «può “mangiare” campo ed orto e tutto ciò che il padre le ha dato finché vive».

Scopo dell’adozione, quindi, più che il semplice sostentamento materiale, già diversamente garantito, sembrano essere in questo caso l’accudimento e la conservazione del patrimonio all’interno della famiglia.

 Passim nei testi di Emar. Lo stesso si trova anche ad Ugarit. 55 Nel testo P. Oxy. L 3555. 136 glia. L’enorme quantità di contratti rimasti permette forse di supporre che in assenza di specifiche disposizioni il patrimonio della monaca venisse assorbito dal tempio.

Fuori dalla famiglia Come abbiamo visto, l’invecchiamento, anche in assenza di figli naturali, non costituisce un grosso problema nelle classi più agiate, o che almeno abbiano una pur piccola proprietà. Assai diversa è invece la situazione per le classi inferiori, il cui unico sostentamento è dato dal lavoro svolto. I testi sembrano indicare che questo venisse mantenuto fino alla completa disabilità dell’individuo.

Al fisiologico decremento delle capacità fisiche pare corrispondere un cambiamento delle mansioni (le donne dei laboratori di tessitura passano, ad es., dalla tessitura alla filatura) e, soprattutto nel caso degli uomini, un incremento dell’attività di coordinamento e supervisione dei gruppi di lavoro.

Per Wilcke, la riduzione delle razioni, documentata per alcuni lavoratori nei testi del III millennio a.C., non è conseguenza dell’adeguamento di queste ad una diminuita efficienza e a un diverso fabbisogno dovuto all’età, ma testimonia di forme assistenziali da parte delle istituzioni palatina o templare nei confronti di lavoratori ormai inabili.

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L’uscita dai registri di contabilità dei lavoratori appartenenti alle varie categorie, che figurano regolarmente nei testi amministrativi, non coinciderebbe quindi con una loro sopravvenuta totale inabilità al lavoro, ma con la loro morte. La documentazione attualmente in nostro possesso non permette di confermare l’ipotesi di una simile, embrionale forma di stato assistenziale. Generalmente, il peso degli anziani inabili ricade sulle famiglie; ma cosa avviene se essi non sono sposati, o se sono vedovi e senza figli?

Come abbiamo già visto, pare che il tempio, almeno in certi periodi storici, svolga una funzione di accoglienza nei confronti di persone senza più possibilità di un’esistenza indipendente, appartenenti alle classi senza proprietà, oppure impoverite, indebitate, e senza una famiglia in grado di sostentarle: per lo più donne divorziate o vedove, anziani ormai inabili o senza lavoro, schiavi anziani cui è morto il padrone.

Queste persone possono trovare nel tempio un’istituzione che le accoglie sotto il suo tetto, a prezzo, però, della perdita della libertà. Poco ci dicono le tipologie testuali di cui disponiamo sugli aspetti psicologici inerenti ai problemi affrontati.

Una testimonianza inte56 Claus Wilcke, Care of elderly in Mesopotamia in the third millennium b.C., in Stol, The care of elderly, pp. 23-58, partic. p. 26 ss. 137 ressante ci viene ancora una volta dai testi di Mari. In un’accorata lettera, Ahassunu, donna dell’“harem” del re Yasmaæ-Addu, scrive a quest’ultimo: Di’ al mio Signore: così parla Ahâssunu, la tua serva.

Che il mio Signore si prenda cura della mia madre-nutrice! Peraltro, riguardo alla mia madre-nutrice, io invio lettera su lettera, affinché il mio signore non dimentichi.

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D’altra parte ho sentito dire: “tua madre è iscritta come dono”. Queste parole mi hanno fatto paura; allora ho insistito presso il mio signore dicendogli: “Non deve essere assolutamente data in dono!”. Non esegue forse, d’altronde, il lavoro che le viene destinato? Che il mio Signore abbia cura della sua vecchiaia! Inoltre, la mia madre-nutrice mi ha scritto dicendo:

“Ho paura che mi si dia in dono. Scrivi, ti prego, al mio Signore, che mi si lasci uscire [dal palazzo]”. Se il mio Signore offre mia madre agli dei, mi faccia portare, per piacere, copia dell’atto, in modo che il mio cuore si calmi.

Che il mio Signore mi scriva quel che accade. Quando il mio Signore mi aveva scritto: “Darò tua madre agli dei, che il tuo cuore non si preoccupi più!”, il mio cuore si era rallegrato.

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Il Palazzo si sbarazzava dei lavoratori anziani scarsamente produttivi, ormai bocche inutili, offrendoli in dono a privati -messaggeri, dignitari, membri di altre corti- o alla divinità, cioè al tempio.

In questo caso, è possibile che inizialmente fosse stato deciso di ritirare la donna dall’harem per darle una “pensione” decorosa in un tempio; ma poi, forse proprio per il fatto che ella era ancora in grado di lavorare, si era pensato di poterla offrire in dono a qualche personaggio. È per questo che la donna, spaventata, si rivolge alla figlia di latte perché ottenga dal sovrano di lasciarla uscire dal Palazzo e dai suoi giochi di scambio, consentendole di vivere una vecchiaia tranquilla nella sua città.

Conclusioni Durante una certa fase della sua vita, che per lo più risulta coincidere con l’avanzata maturità, la donna non appartenente alle classi inferiori si trova generalmente a godere, in Mesopotamia, del massimo di autonomia.

In alcuni casi, può per la prima volta decidere della sua vita. E il suo potere, per lo più connesso alla vedovanza, condizione quasi naturalmente diffusa per il modello matrimoniale esistente, aumenta via via che si sale di livello sociale. 57 ARM X 97, vedi Durand, Documents épistolaires, p. 419 ss. 138 Libera, per lo più, di risposarsi a sua scelta, o investita di poteri paterni all’interno della famiglia alla morte del marito, la vedova benestante diviene un soggetto economico di tutto rispetto.

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Nella classe regnante, poi, la figura della regina madre domina la scena come personaggio di primo piano, spesso alla pari con i più alti funzionari della corte, e, non di rado, come vera detentrice del potere, celata dietro la figura legittimante di un figlio giovanissimo e manipolato.

Nella progressiva perdita di autonomia che caratterizza il passaggio alla vera vecchiaia, quando siano presenti dei figli quest’ultima non costituisce un problema, soprattutto nelle famiglie di possidenti, dove la prospettiva dell’eredità costituisce un indubbio incentivo al sostentamento e all’accudimento dei genitori. In assenza di figli, la situazione diventa anche qui più problematica, ma la società pare organizzarsi abbastanza brillantemente per limitare i problemi di una vecchiaia senza sostentamento o cura:

la pratica assai diffusa dell’adozione, anche di adulti, in cambio dell’accudimento, sembra ovviare perfettamente a questo problema.

Per le classi inferiori, con l’inabilità al lavoro la situazione si fa invece assai più difficoltosa in mancanza di un adeguato sostegno familiare. Non si hanno ancora prove certe, infatti, dell’assegnazione di razioni ridotte agli anziani ormai inabili. Tuttavia, pur imponendo precise condizioni, il tempio pare costituire un possibile rifugio per i diseredati.

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