TRATTATO DUBLINO2

September 13, 2023
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Il superamento del Trattato di Dublino è uno degli argomenti che da sempre tiene banco all’interno dell’Unione Europea. Nel 2020 più volte il presidente della Commissione europea Ursula von der Leyen ha annunciato delle novità che andranno ad incidere sul sistema di accoglienza dei migranti da parte degli Stati membri. Ci sarà, secondo le indicazioni date dallo stesso numero uno dell’esecutivo europeo, una “nuova governance europea delle migrazioni” che si baserà su una struttura comune per quanto concerne asili e rimpatri con modalità più incisive e potrà contare su una maggiore solidarietà in tutta l’Unione nell’affrontare il problema dell’immigrazione. Almeno queste sono le prospettive, anche se a giudicare dall’andamento politico degli ultimi anni appare molto difficile poter vedere a breve delle vere modifiche al trattato.

Cos’è il trattato di Dublino

l trattato di Dublino è stato firmato nel 1990 appunto a Dublino (Irlanda) per disciplinare la materia relativa al sistema dell’accoglienza e delle richieste d’asilo all’interno dell’Unione europea. Oltre ai Paesi comunitari, nel documento rientrano anche Norvegia, Svizzera e Islanda. Il trattato è entrato in vigore sette anni dopo, nel mese di settembre del 1997. Uno dei principi cardine che lo costituisce è quello secondo cui è lo Stato di primo approdo del migrante che deve far fronte al “sistema” accoglienza, domanda d’asilo inclusa, impedendo quindi che i richiedenti tale diritto facciano richiesta in più Stati membri. Altro punto fondamentale del trattato è quello di evitare il più possibile che vi siano richiedenti asilo detti “in orbita” e cioè che siano trasportati da uno Stato membro ad un altro. Da questi principi si evince come il trattato penalizzi i Paesi meridionali dell’Europa, Italia compresa, che registrano ogni anno l’arrivo di diverse migliaia di migranti su tutto il territorio nazionale. Adesso, stando a quanto detto dal presidente dell’esecutivo europeo, le modifiche del trattato dovrebbero proprio puntare su una maggiore solidarietà europea verso gli Stati più esposti ai flussi migratori.

Le modifiche del 2003 e del 2013

Quella annunciata dal presidente della Commissione Europea non è la prima modifica alla quale sottoporre il trattato di Dublino. Il documento ha subito già delle modifiche: nel 2003 con il regolamento “Dublino II” e nel 2013 con il regolamento “Dublino III”. La modifica del 2003 non è stata di tipo sostanziale ma più che altro formale dal momento che alcuni Paesi, Danimarca in primis, avevano rinunciato ad adottare alcune regole previste nel documento.

Nel 2013 altre modifiche hanno incluso tutti gli Stati membri ad eccezione della Danimarca. Il principio cardine però è rimasto lo stesso, ovvero che lo Stato di primo approdo del migrante è quello che si occuperà dell’accoglienza e della relativa richiesta d’asilo. Ma mentre nel 1990 lo stesso principio si basava sul buon senso in quanto la percentuale delle migrazioni era contenuta, nel 2013, la situazione ha assunto prospettive diverse a causa dell’afflusso imponente di migranti. Sono state quindi sollevate numerose polemiche sulla possibilità di rivedere il trattato con modifiche innovative basate sul mutato conteso socio politico.

Le controversie legate a Dublino

Se negli anni della firma del primo trattato di Dublino il fenomeno era ridimensionato, con l’aumento del numero degli sbarchi soprattutto lungo le rotte del Mediterraneo i principi cardine previsti dal regolamento hanno creato più di un grattacapo ai Paesi del sud del vecchio continente. In particolare, la circostanza secondo cui i migranti devono chiedere asilo soltanto nello Stato di primo approdo, ha rappresentato per Italia e Grecia un onere gravoso che ha avuto conseguenze importanti anche sul piano interno.

Infatti sono proprio Roma e Atene che ogni anno ricevono lungo le proprie coste il maggior numero di migranti salpati dal nord Africa e dalla Turchia. Una circostanza che ha comportato situazioni difficili nella gestione dell’accoglienza. Migliaia di migranti infatti sono dovuti rimanere nei Paesi di approdo in attesa dell’esito della domanda di asilo. Per tal motivo, specialmente dopo le primavere arabe del 2011, sono stati riscontrati gravi problemi nel sistema di accoglienza italiano e greco, con i due rispettivi governi spesso impossibilitati a far fronte da soli al problema.

Inoltre il divieto di movimenti secondari interni all’Ue da parte dei richiedenti asilo, ha comportato il respingimento di migranti da parte di altri Paesi, a partire soprattutto da Germania, Francia e Austria, verso gli Stati di primo approdo. In Italia, ad esempio, nel 2019 sono stati di più i richiedenti asilo riportati all’interno del nostro territorio da altri Stati dell’Ue che i migranti sbarcati lungo le nostre coste. Secondo le statistiche delle autorità di Berlino, nel solo 2018 sono emersi 35.375 casi conclamati di movimenti secondari che hanno riguardato la Germania. Ogni mese dal territorio tedesco partono diversi aerei che rispediscono indietro, soprattutto in Italia, le persone protagoniste dei movimenti secondari.

Le proposte di modifica

In poche parole, l’applicazione del trattato di Dublino negli ultimi anni soprattutto ha mostrato non poche lacune che hanno portato i Paesi più coinvolti nel fenomeno migratorio a chiedere importanti modifiche. Sotto accusa è soprattutto il principio dell’onere esclusivo nell’accoglienza e nell’esame delle domande di asilo da parte dello Stato di primo approdo. Per superare questi limiti, sono state diverse le proposte di modifica presentate soprattutto negli ultimi anni in sede comunitaria, oltre alle due modifiche già ratificate nel 2003 e nel 2013.

Complessivamente sono state avanzate sia proposte più “soft” che invece di radicale riforma del trattato di Dublino. Tra quelle del primo gruppo ci sono i regolamenti, chiesti soprattutto dai Paesi del sud Europa, per introdurre meccanismi automatici di ricollocamento dei migranti arrivati in territorio comunitario. Dunque, i principi sanciti da Dublino con queste eventuali modifiche non sarebbero stati toccati, ma al contempo l’obiettivo si sarebbe arrivati a una gestione solidale dell’accoglienza e delle domande di asilo. Il 23 settembre 2019 a Malta cinque governi dell’Ue, tra cui quello italiano, hanno avanzato una proposta sui ricollocamenti automatici dei migranti la quale però non ha avuto seguito in ambito comunitario.

Tra le proposte di riforma più radicale invece, vanno annoverate quelle della commissione europea del 2015 quando a capo dell’esecutivo Ue vi era Jean Claude Juncker. Tuttavia su quel documento non si è poi trovata alcuna intesa. Nel novembre 2017 il parlamento europeo ha approvato una modifica sostanziale del regolamento di Dublino e dei meccanismi di asilo e protezione in ambito comunitario, ma anche in quel caso sul testo non si è trovato alcun accordo tra i vari Stati membri e quindi la riforma è naufragata. Più di recente, nel settembre del 2020 il presidente della commissione europea Ursula Von Der Leyen ha parlato di una prossima riforma sull’immigrazione da presentare in parlamento, in cui i principi di Dublino dovrebbero essere superati.

Dublino 3

l Regolamento Dublino III, che sostituisce il c.d. Regolamento Dublino II (Regolamento 343 del 2003) – che a sua volta aveva mandato in pensione la Convenzione di Dublino del 1990 – contiene i criteri e meccanismi per individuare lo Stato membro che è competente per l’esame di una domanda di protezione internazionale presentata in uno degli Stati membri da un cittadino di un Paese terzo o apolide.Il Regolamento Dublino è senza dubbio il “pezzo” del Sistema europeo comune di asilo più discusso e criticato, non solo dal punto di vista delle conseguenze negative sulla vita dei richiedenti asilo (ampiamente documentate in numerosissimi rapporti, inchieste giornalistiche,…), ma anche per la scarsa efficienza del sistema.
– i Regolamenti, al contrario delle Direttive, non necessitano di recepimento nel diritto interno e sono obbligatori in tutti i loro elementi e direttamente applicabili in ciascuno degli Stati membri; – il Regolamento Dublino III, approvato dal Consiglio dell’UE e dal Parlamento europeo secondo la procedura legislativa ordinaria (maggioranza qualificata in seno al Consiglio e ruolo di co-legislatore da parte del Parlamento europeo, che invece era escluso dal processo di adozione di Dublino II), è entrato in vigore il 19 luglio 2013 ma è stato applicato solo a partire dal 1° gennaio 2014. – strettamente collegato al Regolamento Dublino è il Regolamento Eurodac, che permette agli Stati di comparare – tra le altre cose – le impronte digitali dei richiedenti asilo. – l’ambito di applicazione del Regolamento Dublino va oltre l’Unione Europea, in quanto ne sono vincolati, oltre ai 28 (poi 27) Stati UE, anche Islanda, Norvegia, Svizzera e Liechtenstein, in forza di accordi di associazione.

Il principio generale alla base del Regolamento Dublino III è lo stesso della vecchia Convenzione di Dublino del 1990 e di Dublino II: ogni domanda di asilo deve essere esaminata da un solo Stato membro e la competenza per l’esame di una domanda di protezione internazionale ricade in primis sullo Stato che ha svolto il maggior ruolo in relazione all’ingresso e al soggiorno del richiedente nel territorio degli Stati membri.


Il Dublino III non risolve i problemi che stanno alla base del sistema Dublino, il cui impianto si regge su un presupposto non corrispondente al vero, cioè che gli Stati membri costituiscano un’area con un livello di protezione omogeneo.Al contrario, tutti sanno che non è così perché le condizioni di accoglienza dei richiedenti asilo e i tassi di accoglimento di domande di protezione “simili” cambiano drammaticamente da un Paese all’altro. Ma non è tutto. Infatti, poiché allo stato attuale chi ottiene la protezione internazionale non ha poi la possibilità di lavorare regolarmente in un altro Stato UE, ciò significa che, salvo eccezioni, lo Stato che viene individuato dal sistema Dublino come competente ad esaminare la domanda sarà poi anche lo Stato in cui l’interessato dovrà rimanere una volta ottenuta la protezione. Ciò non tiene conto né delle aspirazioni dei singoli (o dei loro legami familiari o culturali con alcuni Paesi) né delle concrete prospettive di trovare un’occupazione nei diversi Paesi europei. Come se Malta, la Grecia, la Germania, la Svezia fossero la stessa cosa.

Le critiche

Il sistema di Dublino ha ricevuto numerose critiche, in particolare dal Consiglio europeo per i rifugiati e dall’Alto commissariato delle Nazioni Unite per i rifugiati. Pensato originariamente per gestire le richieste di asilo dai paesi ex comunisti dell’Europa dell’est dopo il 1989,

il sistema è accusato di non garantire adeguata protezione ai richiedenti asilo, spesso costretti ad aspettare anni prima che le loro richieste siano esaminate. Inoltre non tiene conto a sufficienza dei ricongiungimenti familiari e comporta una pressione maggiore per i paesi alle frontiere meridionali dell’Unione, che sono la porta d’ingresso per gran parte dei migranti e dei profughi.

Per superare Dublino, l’Europa si allontana dai suoi valori

Unione europea più coinvolta

Definire l’accordo raggiunto a Lussemburgo sulle politiche dell’asilo (provvisorio, perché va ancora ratificato dal Parlamento europeo) come una svolta storica, secondo le dichiarazioni del governo italiano, suona francamente eccessivo. Peggio ancora però avallarlo come “la strada giusta sui migranti”, come ha titolato il Corriere della Sera. Per la precisione, il Consiglio affari interni dell’Ue ha approvato due pacchetti, che nell’insieme formano un libro di circa 300 pagine, uno sulle procedure di frontiera e uno sull’asilo e l’accoglienza. Dopo sette anni di trattative infruttuose, va riconosciuto il fatto che l’accordo prefigura un parziale cambio di passo in direzione del superamento dei vincoli della convenzione di Dublino: ossia delle norme che caricano l’onere dell’accoglienza sul primo paese di approdo, dispensandone gli altri, e soprattutto vincolando le persone in cerca di asilo a rimanere in quel paese, anche se hanno legami con altri paesi, o comunque l’aspirazione a raggiungerli.

Il principale aspetto positivo dell’accordo è appunto questo: il maggiore coinvolgimento dell’Ue nel suo insieme nella gestione del dossier dell’asilo, un principio tanto elementare quanto politicamente scomodo. Sicché fin qui non è stato possibile affermarlo. Il principio dovrebbe concretizzarsi in una forma di “solidarietà obbligatoria”, ossia nella redistribuzione di una quota annuale di richiedenti asilo verso altri paesi dell’Ue; ma il testo dice, aspetto sfuggito a molti commentatori,

“in caso di aumento improvviso degli arrivi”. Non sarà facile accordarsi sulla definizione di “aumento improvviso” e del riconoscimento di uno “stato di necessità”. Né gli sbarchi del 2011, all’epoca delle primavere arabe, né l’arrivo di un milione di siriani nel 2015-2016 in Germania avevano convinto le istituzioni europee ad adottare le misure eccezionali già allora possibili e scattate soltanto in occasione dell’invasione dell’Ucraina.

La redistribuzione, se avverrà, dovrebbe partire con 30 mila posti all’anno, che diventerebbero 60 mila l’anno successivo, poi 90 mila, fino a 120 mila dal quarto anno in poi. Meglio di oggi, certo, ma non granché se si pensa che nel 2022 gli stati dell’Ue hanno ricevuto oltre 960 mila richieste di asilo.

Per tutti gli altri l’accoglienza rimane attribuita al paese di primo ingresso, e non per un anno, come aveva richiesto il Parlamento europeo, bensì per due.

Le novità sull’asilo

Altre due sono le principali novità, e non stupisce che abbiano subito destato preoccupazione tra i difensori dei diritti umani e grande soddisfazione sul fronte sovranista.

La prima è l’annuncio di una procedura accelerata per l’esame delle domande, basata su una lista di paesi considerati sicuri, perché meno del 20 per cento delle richieste d’asilo di profughi provenienti da quei paesi sono state in precedenza accettate. Chi, dunque, proviene da un paese della lista avrà la sua domanda esaminata in tre mesi, e potrà nel frattempo essere detenuto, con l’evidente previsione di respingere la domanda e di poterlo più facilmente espellere.

Gli interrogativi investono il livello di approfondimento della valutazione di queste domande e il rispetto dei diritti dei richiedenti, incluso quello di appello. Si rischia di introdurre procedure sommarie e difficilmente appellabili, basate su una presunzione d’infondatezza delle istanze.

L’altra novità, a quanto si è appreso, è stata voluta proprio dal governo italiano, che incidentalmente ha rifiutato di ricevere compensazioni in denaro in caso di mancata redistribuzione dei richiedenti asilo, con ciò ritrattando uno dei principali argomenti della retorica sovranista, cioè il costo dell’accoglienza.

La norma introdotta prevede che il richiedente diniegato possa essere espulso non verso il suo paese di origine, ma anche verso un paese con cui abbia comunque dei legami, per il fatto per esempio di esservi transitato, magari perché trattenuto contro la sua volontà. Si apre dunque la strada a respingimenti verso la Libia e i suoi campi di detenzione, o verso la Tunisia delle campagne xenofobe del presidente Kais Saied.

È probabile che l’obiettivo sia la deterrenza, come per le deportazioni verso il Ruanda varate dal governo del Regno Unito, ma non si vede come la norma possa conciliarsi con il rispetto dei diritti umani.

 

Pochi documenti hanno influenzato le sorti attuali dell’Italia di quanto non abbia fatto il trattato di Dublino, di cui però l’italiano medio ha sentito parlare solo molto tardi, quando ormai la ratifica era lontana nel tempo e le responsabilità fumose e difficili da assegnare.

Quello che si sa di sicuro è che attualmente è in vigore il Dublino III, firmato dal governo di Enrico Letta (ministro degli interni Angelino Alfano, ministro degli esteri Emma Bonino), che ribadisce il principio di responsabilità permanente del paese di primo approdo dei migranti, definendolo «una pietra miliare».

Di suo, vi aggiunge il criterio della tutela dei minori e del ricongiungimento familiare per stabilire la competenza dei paesi a concedere il diritto d’asilo (competenza ad accogliere persone con le carte in regola, già identificate e vagliate dai paesi di primo approdo).

Ma il difficile è risalire alla responsabilità iniziale per la «pietra miliare» che rende il paese di primo approdo la discarica dell’Unione europea (adesso praticamente solo l’Italia, da quando la Grecia può spedire gli irregolari in Turchia, pagata miliardi dall’Ue per tenerseli. La Spagna comincia ad avere dei flussi in più da quando Minniti ha fatto l’accordo con i libici: circa 8 mila quest’anno, il doppio dei loro arrivi nel 2016, ma sempre un’inezia rispetto agli sbarchi in Italia).

Ma il principio che lega per sempre il migrante al paese di primo approdo non nasce neppure nel 2003, risale al 1° settembre 1997, quando andò in vigore l’originaria Convenzione di Dublino. Quell’anno in Italia era giunta un’ondata di migranti albanesi (scatenata dallo scandalo finanziario delle «piramidi») che per la prima volta non fu respinta dal governo dell’epoca, il Romano Prodi I (ministro degli interni Giorgio Napolitano, ministro degli esteri Lamberto Dini), ma lasciata sostanzialmente sulle spalle delle Caritas e delle parrocchie, prevalentemente pugliesi.

Quella prima convenzione firmata a Dublino stabiliva una serie di criteri di assegnazione ai vari paesi dei richiedenti asilo in possesso di documenti, poi diceva cosa fare nei confronti degli irregolari: «Art.6. Se il richiedente l’asilo ha varcato irregolarmente, per via terrestre, marittima o aerea, in provenienza da uno Stato non membro delle Comunità europee, la frontiera di uno Stato membro, e se il suo ingresso attraverso detta frontiera può essere provato, l’esame della domanda di asilo è di competenza di quest’ultimo Stato membro».

All’epoca era una norma di semplice buon senso, c’erano ancora le frontiere anche all’interno dell’Europa, figuriamoci se si poteva entrare tranquillamente dall’esterno, tant’è vero che proprio quel governo lì fece fronte l’anno dopo al primo monumentale sbarco degli albanesi in Puglia. Era l’agosto 1991 e il Viminale dispose un ponte aereo che in una sola notte riportò in Albania 17.467 persone arrivate in Puglia sei giorni prima, con l’impiego di 3 mila uomini e l’intera 46esima aerobrigata, in tandem con l’Alitalia.