Impero Americano

June 16, 2022
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1. In geopolitica, non esiste niente di più americano delle basi militari degli Stati Uniti all’estero. Compongono una rete immensa , ai quattro angoli del pianeta,

le basi sono l’espressione più manifesta della natura imperiale del primato degli Stati Uniti.

Il modo di acquisire le installazioni, il terreno su cui erigerle o il diritto di accedervi si pone inoltre in continuità con il breve ma denso momento coloniale della storia americana.

Normalmente, le basi più grandi appartengono al dipartimento della Difesa (Corea del Sud, Giappone, Germania, Italia), oppure sorgono nei territori d’oltremare degli Stati Uniti (Guam, Porto Rico). In altri casi, la sovranità resta al paese ospite con cui Washington ha negoziato una concessione per un lasso di tempo determinato oppure il diritto ad accedervi all’occorrenza (Thailandia, Australia, Filippine, Islanda). In altri ancora, le Forze armate non acquartierano stabilmente un’unità militare all’estero, ma ne fanno ruotare diverse per non dare l’impressione di uno schieramento fisso – si tratta insomma di una presenza stanziale mobile (Polonia, paesi baltici). Tutte queste distinzioni hanno senso dal punto di vista geopolitico?

Dalla seconda Guerra mondiale, gli americani non hanno più lasciato la massa bicontinentale. Impegnati come sono da 80 anni a questa parte ad assicurarsi a soffocare qualsiasi tentativo di Indipendenza e a controllare  i revisionismi cinese, russo e iraniano.  il mondo delle basi americane si estende su  89 paesi o territori non indipendenti, poco meno della metà degli Stati del pianeta. Se si uniscono quelli su cui sorgono le installazioni più rilevanti, si ottiene una collana di perle che cinge l’Eurasia. Questa linea non esaurisce affatto la presenza militare americana: non tocca per esempio l’aeroporto di U-Tapao in Thailandia dove i velivoli statunitensi fanno scalo centinaia di volte l’anno; neanche Camp Bondsteel in Kosovo, che può acquartierare fino a 7 mila soldati (ora ce ne sono circa 600); e nemmeno la Polonia, caso da manuale di presenza mobile fissa, con i suoi 18 siti cui gli americani hanno accesso. La collana di perle attraversa snodi insostituibili, strategici, dove l’impronta statunitense è più salda. Plastica dimostrazione del contenimento dell’Eurasia.

Procedendo da est verso ovest, si parte da Guam, essenziale rampa di lancio per proiettarsi velocemente in Estremo Oriente e al contempo stare (non si sa ancora per quanto) al riparo dal fuoco cinese. Si sbarca poi in Giappone, primo pae­se per militari statunitensi, circa 55 mila, con le sue megabasi a Okinawa e la sede della VII Flotta a Yokosuka, le principali di oltre 121 siti. L’unico approdo continentale in Asia orientale, la Corea del Sud, ospita invece 28 mila soldati concentrati a Camp Humphreys, la più grande base statunitense all’estero. 

La scelta di Singapore è motivata da tutto fuorché dai numeri: benché priva di un grosso contingente, dalla città Stato si controlla lo Stretto di Malacca, uno dei più importanti colli di bottiglia marittimi, essenziale per arginare la Cina; qui ha sede un comando logistico della VII Flotta dopo la chiusura di Subic nelle Filippine, anche in virtù della base navale di Changi, una delle poche al mondo in grado di gestire le oltre 100 mila tonnellate di una portaerei a stelle e strisce. Si procede quindi verso la già citata Diego Garcia, per arrivare a Camp Lemonnier a Gibuti, dove si coordinano le operazioni sia nel Corno d’Africa sia sulla Penisola Araba – e si subisce la marcatura dei cinesi a Bāb al-Mandab.


Nel Golfo, invece, sono tre i principali appoggi statunitensi: al-‘Udayd in Qatar, quartier generale locale del Comando per il Medio Oriente (Centcom) e centro di controllo aereo di tutta la regione; Manama in Bahrein, sede della V Flotta deputata a vegliare sulle rotte marittime; e il Kuwait tutto, affollata guarnigione dell’Esercito con 16 mila soldati e 2.200 mezzi corazzati divisi fra Camp Buehring, Camp Arifjan e Camp Patriot. Si prosegue poi in Turchia, con la stazione radar dello scudo antimissile della Nato a Kürecik e la base aerea di İncirlik, dove sono collocate circa 50 testate nucleari. Si sbarca infine in Europa(carta

1). L’Italia mette a disposizione basi essenziali per proiettarsi in Africa e Medio Oriente, da Aviano a Sigonella, dalla quale partono missioni di bombardamento verso la Libia, senza dimenticare il sistema di comunicazione satellitare Muos di Niscemi. La Germania è il perno della presenza militare americana nel Vecchio Continente, seconda al mondo per numero di militari (almeno 36 mila) e prima per installazioni (almeno 194); qui hanno sede il Comando per l’Europa, la più grande base dell’Esercito nel Vecchio Mondo (Wiesbaden, controlla almeno 20 mila soldati) e il gigantesco scalo di Ramstein. Toccato il Regno Unito, essenziale per gli snodi aerei, si chiude con la Groenlandia, dove sorge la base più a nord del globo, Thule, che irradia le comunicazioni nel pianeta e scruta che dall’Artico non provengano missili.

Comune denominatore dei paesi lungo la collana di perle: la ridotta sovranità di fronte all’imperio americano. Vuoi per uno squilibrio incalcolabile nei rapporti di forza, evidente nel caso dei territori non indipendenti (Guam, Diego Garcia, Groenlandia), degli staterelli tali solo sulla carta (Gibuti e Singapore) e delle petromonarchie arabe passate da un protettore (i britannici) all’altro (gli americani). Oppure per condizioni storiche, dai reietti della seconda guerra mondiale (Italia, Germania e Giappone) agli imperi decaduti (Turchia e Regno Unito).

Note e Credits

1. Cfr. A. Krepinevich, R. Work, «A New Defense Posture for the Second Transoceanic Era», Center for Strategic and Budgetary Assessment, 2007, cap. VI.

2. Cit. in D. Immerwahr, How to Hide an Empire: A Short History of the Greater United States, 2019, Vintage Publishing, p. 13.

3. D. Vine, Base Nation: How U.S. Military Bases Abroad Harm America and The World, New York 2015, Metropolitan Books.

4. DOD Dictionary of Military and Associated Terms, novembre 2019, p. 23.

5. A.T. Mahan, The Influence of Sea Power Upon History, 1660-1783, Boston 1890, Little, Brown and Company, p. 82.

6. Cfr. D. Vine, Island of Shame: The Secret History of the U.S. Military Base on Diego Garcia, Princeton 2009, Princeton University Press.

7. H.S. Truman, «Radio Report to the American People on the Potsdam Conference», 9/8/1945, disponibile al sito bit.ly/2PJukyC.

8. Discorso tenuto al Reagan National Defense Forum il 7/12/2019, disponibile al sito bit.ly/2sm1Tin

9.  «U.S. National Survey of Defense Attitudes on Behalf of The Ronald Reagan Foundation», Beacon Research, Shaw & Company Research, condotto il 24-30/10/2019, p. 7, bit.ly/2RVQqkb

10. F. Petroni, «I proconsoli dell’America», Limes, «Stati profondi, gli abissi del potere», n. 8/2018, pp. 169-179.

11. D. Gillison, N. Turse, M. Syed, «The Network: Leaked Data Reveals How the U.S. Trains Vast Numbers of Foreign Soldiers and Police with Little Oversight», The Intercept, 13/7/2016.

12. LIMES ” Impero Americano

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