Compagnie Indie

January 14, 2024
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Se il mondo di oggi è come appare, ed è diviso come è diviso, il merito va dato in parte considerevole a quella corporazione multinazionale ante litteram che fu la Compagnia delle Indie Orientali (EAC, East India Company). Perché gli acuti affaristi-diplomatici dell’Eac, guidati tanto dalla volontà di accumulare sterline quanto dagli obblighi di lealtà al Palazzo di Buckingham, negli anni di attività avrebbero inconsapevolmente contribuito a scrivere e determinare il destino di interi popoli, trasmettendo a noi posteri un mondo disegnato da loro.
L’Eac non fu soltanto una precorritrice di quello che oggi viene definito imperialismo economico, così come non fu una mera espressione della globalizzazione ai tempi degli Imperi. Essa fu la nave-scuola presso la quale si formarono intere generazioni di diplomatici, strateghi e agenti segreti, che lungo le rotte impervie dei traffici coloniali sarebbero divenuti dei maestri nell’arte degli scacchi applicata alle relazioni internazionali. Essa fu la nave-scuola dal cui ventre fertile sarebbero venuti alla luce dei geni inarrivabili del calibro di Edward Law, il pioniere del Grande Gioco, e James Abbot, il Lawrence d’Arabia dell’Ottocento. Ed essa è, ancora oggi – nonostante l’avvenuta sepoltura da parte della storia, o meglio della regina Vittoria –, una fonte inesauribile di lezioni in materia di pensiero strategico, geopolitica e strumentalizzazione delle minoranze etno-religiose nel nome del divide et impera.
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La Compagnia britannica delle Indie orientali, altresì nota come la Compagnia delle Indie orientali, è stata indubbiamente l’espressione più potente della primazia globale e trasversale di Londra. Istituita alla vigilia di capodanno del 1601, cioè il 31 dicembre 1600, l’Eac nasce con uno scopo univoco, preciso e definito: stabilizzare i traffici commerciali britannici nell’oceano Indiano.

Di lì a poco, colte le potenzialità di un unico ente deputato al controllo dei traffici intercoloniali, la Repubblica delle Sette Province Unite (gli odierni Paesi Bassi) e il regno di Francia avrebbero proceduto a costituire le loro versioni, che, però, avrebbero avuto molto meno successo: la Compagnia olandese delle Indie orientali (VOC, Vereenigde Oostindische Compagnie) e la Compagnia francese delle Indie orientali (CIO, Compagnie des Indes orientales).

Sbaragliata la concorrenza – sia la Voc sia la Cio avrebbero dichiarato fallimento nei decenni successivi –, la Eac sarebbe divenuta la colonna portante dell’imperialismo britannico nel mondo e l’impresa commerciale più florida del suo tempo. Perché a differenza delle controparti olandese e francese, che erano e sarebbero rimaste commercio fino alla fine, la Eac era anche (e soprattutto) diplomazia, geopolitica, politica, spionaggio e strategia.

All’acme del suo potere, la Eac avrebbe rappresentato un vero e proprio governo ombra, uno stato nello stato, il potere dietro al trono in grado di condizionare la politica estera di Londra nelle periferie dell’Asia: dalle terre selvagge e indomabili del Turkestan all’India e dalla Cina all’Indonesia. Perché furono gli agenti dell’Eac ad innescare le guerre dell’oppio. Furono gli agenti dell’Eac a catalizzare il declino della dinastia Moghul. E furono sempre gli agenti dell’Eac a capire l’importanza della “geopolitica degli stretti” nell’ambito della corsa per il dominio globale.

L’accumulazione eccessiva di influenza politica e di potere economico, però, si sarebbero rivelate controproducenti nel lungo periodo. Il Parlamento e la Corona, invero, a partire dalla fine del Seicento, cominciarono a sabotare l’espansione ulteriore della Eac a mezzo di alimentazione della concorrenza e imposizione di ostacoli politici.

Dominio indiretto e informale, nel caso dell’Eac in India, ha significato, spesso e volentieri, l’appalto del “lavoro sporco” a capi-tribù e principi fedeli alla Sterlina e abbastanza solidi da non temere rovesciamenti dal basso, la strumentalizzazione di dissapori e differenze di stampo etno-religioso – utile per gettare i principati multi-identitari nell’instabilità –, il freno alle attività di evangelizzazione dei missionari anglicani in loco – il loro fine era troppo visibile, dunque costituivano un’insidia per gli affari – e il reclutamento di insospettabili locali (pundit) per portare avanti operazioni di intelligence e di guerra coperta.

La storia avrebbe giudicato severamente l’Eac, dapprima condannandolo ad assistere allo scoppio di moti antibritannici su scala molecolare e dipoi seppellendolo de jure et de facto, perché oramai divenuto troppo potente, quindi pericoloso, per gli alti vertici della piramide del potere londinese. Ciononostante, a distanza di oltre un secolo dalla sua dissoluzione, l’Eac resta una fonte inesauribile e sempreverde di insegnamenti in materia di pensiero strategico, geopolitica e strumentalizzazione delle minoranze etno-religiose nel nome del divide et impera.

Attraverso le compagnie delle Indie Britanniche,  alla luce del sole: alla fine del ’700, un accordo tra Gran Bretagna, Francia e Portogallo aggiudicava alla prima, tramite la East India Company, il monopolio dell’oppio del Bengala, dalla qualità particolarmente rinomata. La Compagnia delle Indie Orientali decise allora di incrementare la produzione di oppio in India per rivenderlo in Cina. Per aggirare i divieti, riforniva le navi dei contrabbandieri che, grazie alla complicità dei mandarini, introducevano l’oppio in Cina. Gli affari inglesi andarono da subito a gonfie vele: in circa 20 anni il numero di ceste d’oppio contrabbandate in Cina salì da circa 5.000 a oltre 40.000 all’anno. «In Cina le quantità disponibili di oppio erano molto limitate e il costo molto alto per cui la diffusione restò a lungo contenuta. Fu dopo l’insediamento britannico in India che l’oppio divenne una merce sempre più disponibile e a costi accessibili» spiega Samarani. I metalli preziosi fecero così inversione di rotta, tornando alla Gran Bretagna con gli interessi, mentre in Cina l’abuso prendeva le dimensioni dell’epidemia sociale.

PERFIDA ALBIONE! Intanto in Europa le voci giravano. Ma mentre l’opinione pubblMa mentre l’opinione pubblica attaccava l’atteggiamento ambiguo del governo britannico, questo non era intenzionato a rinunciare alla gallina dalle uova d’oro. D’altra parte si sentiva dalla parte della ragione. Come osserva Samarani «gli inglesi trovavano inaccettabile che la Cina rifiutasse di adeguarsi a un trend internazionale segnato dalla Libertà di commercio e dalla superiorità del Paese in cui la Rivoluzione industriale aveva avuto inizio». E alle critiche risposero alimentando la propria immagine “civilizzatrice”, ovvero imbarcando sulle navi che trasportavano l’oppio in Cina i missionari della Chiesa anglicana, con il nobile scopo di evangelizzare il Paese.

Nel frattempo in Cina non si capiva bene che cosa fare. Chi suggeriva di rendere lecito il commercio di oppio per poterlo tassare, chi di esacerbare i divieti. Alla fine prevalse la seconda linea. E nel 1838 l’Imperatore si affidò a un funzionario particolarmente inflessibile, il confuciano Lin Zexu. ll quale come prima cosa inviò una lettera alla regina Vittoria. «Il tema su cui Lin faceva leva era etico-morale» spiega Samarani «scriveva infatti: “Mi é stato detto che avete proibito l’oppio nel vostro Paese e ciò indica senza dubbio che conoscete i danni che esso arreca. Non volete che l’oppio arrechi danno al vostro Paese ma scegliete di arrecare danno ad alri paesi come la Cina. Perché?”». Non é chiaro se la lettera arrivò mai a destinazione o venne requisita prima di raggiungere i lidi britannici. Certo è che la sovrana che passerà alla Storia come moralmente irreprensibile non mosse un dito.

VENTIMILA CASSE SOTTO I MARI. Intanto, in mancanza di risposta, Lin passò alle maniere forti: di fronte alle continue violazioni degli accordi, ordinò che fossero confiscate tutte le casse di oppio in mano ai mercanti britannici. Ne raccolse più di 20.000 e in tre settimane le fece distruggere tutte: ogni balla fu fatta a pezzi e buttata in acqua mescolata con calce e sale, diventando fanghiglia liquida irrecuperabile. E mentre Lin componeva un’ode per scusarsi con il mare, la Compagnia delle Indie, che voleva essere risarcita dell’immensa perdita, reclamava a gran voce l’intervento del governo britannico. Così, dopo l’animata discussione parlamentare di cui si è già detto, gli inglesi optarono per reagire con durezza all’ingerenza cinese. Ufficialmente il motivo per aprire le ostilità non riguardava il traffico d’oppio, in cui il Regno Unito non poteva ammettere di essere coinvolto. Il pretesto fu l’arresto arbitrario di alcuni cittadini inglesi. Fatto sta che nel giugno del 1840 il contingente militare britannico, armato di moschetti moderni e cannoni, giunse in Cina.
La guerra durò pochissimo: le truppe europee erano militarmente superiori ed ebbero rapidamente il sopravvento. Nel 1842 l’Imperatore cinese fu così obbligato a firmare l’umiliante trattato di Nanchino: la Cina era tenuta a risarcire la Gran Bretagna, a diminuire i dazi doganali favorendo i prodotti britannici  ad aprire nuovi porti al commercio con l’Occidente e a concedere la città di Hong Kong. Città destinata a diventare il nuovo centro del traffico d’oppio. Che da lì in poi, infatti, aumentò considerevolmente: secondo alcune stime a metà ’800 i fumatori erano più di dieci milioni.

La Cina digerì male il trattato. La corte imperiale, che esitava a riconoscere la superiorità britannica, rifiutò più volte di accogliere gli ambasciatori stranieri e si oppose alle clausole. Il nuovo casus belli si verificò nell’ottobre del 1856: le autorità cinesi sequestrarono la Arrow, una nave pirata che però si era affrettata per tempo a issare la bandiera inglese. Il console britannico a Hong Kong ordinò l’immediato rilascio dell’equipaggio e le scuse formali per l’offesa al vessillo. I marinai furono rilasciati, ma le scuse non arrivarono. I cinesi meritavano un’altra lezione: fu dato l’ordine di bombardare Canton.
Era di nuovo guerra, e stavolta l’Inghilterra combatteva insieme alla Francia: la superiorità europea fu dunque ancora più eclatante. I nuovi negoziati tra Cina, Gran Bretagna e Francia, a cui poi si aggiunsero Stati Uniti e Russia, portarono ai Trattati di Tient-sin (1858) e successivamente a quello di Pechino (1860) che si rivelarono per la Cina se possibile ancor più penalizzanti: oltre a una pesante indennità, il Celeste Impero doveva garantire alle potenze straniere un maggior numero di concessioni, il controllo su miniere e ferrovie, il libero accesso alla rete fluviale e un’apertura maggiore ai missionari. Doveva inoltre aprire agli occidentali dieci nuovi porti e mai più opporsi ai diplomatici stranieri in visita a Pechino. Era il via libera definitivo per lo sfruttamento imperialista della Cina.
Mai come allora la popolazione cinese si compattò contro l’Occidente e contro quei documenti di accordo che vennero battezzati “trattati ineguali”. Gli stranieri erano, ai loro occhi, barbari, dai tratti fisici comuni e strani e dalla sostanziale inferiorità intellettuale e morale. Convinzione che esplose con la rivolta dei boxer.

NEMESI. Il commercio di oppio, intanto, continuò fino al 1920, benché dal 1912 fosse proibito dalla convenzione dell’Aia. E anche se nel 1941 il generale Chiang Kai-Shek ordinò la distruzione delle coltivazioni, nel 1946 i fumatori di oppio erano ancora 40 milioni. Solo Mao riuscì ad arginare il fenomeno.
«Fu la vittoria comunista nel 1949 a segnare la fine del “secolo di umiliazione nazionale”la Repubblica Popolare Cinese rappresentò infatti la nascita di una Cina nuova, il cui obiettivo primario, accanto allo sviluppo del Paese, era quello di non permettere più a nessuno di calpestarne la dignità» conclude Samarani.

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