SiciliaColonia2

June 21, 2024
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Con lo statuto del 1946, la Sicilia diveniva uno stato con moltissima autonomia quasi indipendente in Materia:

Potere legislativo

Potere giudiziario

Corte costituzionale speciale

Materia Finanziaria

Insomma, con altre norme di grande impatto, come il diritto della Regione a co-decidere con lo Stato:

i costi dei trasporti e delle tariffe relative,

norme doganali speciali,

la possibilità di gestire il proprio debito pubblico per mezzo di prestiti interni

e finanche la gestione separata, o quanto meno autonoma, delle riserve valutarie per i rapporti con l’estero, per mezzo del Banco di Sicilia, che diventava il principale strumento finanziario della Regione.

Insomma sembrava che La Sicilia avesse acquisito una struttura giuridica di Autonomia propriamente detta e nessuno si chiedeva “MA DOVE STA IL TRUCCO”

Lo stesso Statuto disponeva che una Commissione paritetica avrebbe, nel giro di pochi anni, disposto le norme attuative indispensabili al decollo dell’Autonomia e al trasferimento alla Regione dei dipendenti dello Stato

Purtroppo, a fronte di questa forma teorica di regione indipendente, la storia della Sicilia repubblicana sarebbe andata in tutt’altra direzione.

Il trucco consisteva nel modificare costantemente quanto promesso in materia di economia, al punto che Finocchiaro Aprile,

costituente indipendentista, che rifiutò la partecipazione al primo Senato della Repubblica cui aveva diritto in quanto aventiniano, presentò un emendamento perché lo Statuto restasse così com’era, intoccabile.

Invece prevalse una versione in cui lo Stato avrebbe avuto il potere, entro due anni, di apportare modifiche unilaterali allo stesso con legge ordinaria, sempre al fine del coordinamento.

Fortunatamente per la Sicilia, però, il comma che introduceva questa possibilità fu dichiarata incostituzionale dall’Alta Corte già nel 1948, facendo letteralmente “inghiottire sano” lo Statuto siciliano nella Costituzione, proprio come voleva il Finocchiaro Aprile, il quale nel frattempo, ritirato dalla politico, era diventato proprio giudice costituzionale componente dell’Alta Corte insieme a Don Sturzo e ad Ambrosini.

Tra il 1947 e il 1949 una parte dell’Autonomia trovò reale attuazione: devoluzione di molte entrate tributarie, ampia autonomia legislativa, istituzione dell’Alta Corte, etc.

Si costituì regolarmente il parlamento regionale, l’Assemblea, così come la Giunta regionale di Governo, composta in genere da 12 assessorati regionali, su un modello in miniatura dello Stato italiano.

Si è già detto della slealtà dello Stato nell’omettere il passaggio di poteri e di risorse.

Ma l’Alessi, primo presidente, fu pronto a dare un ordine alle Intendenze di finanza per farsi “passare” direttamente tutta una serie di tributi.

Lo Stato dovette ratificare, nel 1948, questo colpo di mano coraggioso del primo presidente della regione autonoma, con un accordo finanziario provvisorio che statuiva che la Regione, in attesa di poter esercitare la propria potestà tributaria attiva, introitasse quasi tutti i tributi erariali “devoluti ”.

Da allora in poi, il processo di attuazione dello Statuto subì prima un rallentamento, poi un arresto, poi le norme attuative vennero emanate su un arco di tempo pluridecennale, in maniera sempre più lontana dal dettato originale,

infine incominciò un lento processo di normalizzazione, rispetto alle regioni a statuto ordinario,

con il sostanziale abbandono dell’impianto statutario, ancora formalmente vigente, ma in gran parte, e sempre di più, lettera morta.

Come è possibile che ciò sia avvenuto senza alcuna reazione da parte della comunità politica siciliana?


La risposta va data, in ultima analisi, nella sostanziale assenza, se non episodicamente, di partiti che si richiamassero all’Autonomia siciliana all’interno del Parlamento regionale,

nonché al persistere di strutturali rapporti coloniali tra Sicilia e Italia, ai quali le classi dirigenti isolane ormai subalterne non furono mai estranee.

I partiti che formarono il parlamento della regione Sicilia, infatti non avevano nessun collante storico col territorio. ne tanto meno con la voglia di autentica Autonomia di buona parte dei Siciliani.

Questo causava la subalternità coloniale 

 

Sin dalle prime elezioni regionali, infatti, prevalse il centrismo democristiano, dapprima fragile e incerto, poi, man mano che le strutture di potere si andavano consolidando, sempre più robusto e monolitico, senza alcuna sostanziale possibilità di ricambio.

Il primo decennio, tuttavia, segnato da presidenze tutto sommato assai rispettabili, come quelle di Alessi, Restivo e, per certi versi, anche quella di La Loggia, pure già più centralista, segnano un’effettiva fase positiva della Regione che, tra mille difficoltà e con il boicottaggio palese da parte dello Stato, riesce ad ottenere alcuni traguardi.

Le prime elezioni, nel 1947, iniziarono sotto i peggiori auspici, con la prima delle stragi “misteriose” dell’Italia repubblicana: Portella della Ginestra. Della strage fu considerato responsabile Turiddu Giuliano, ormai in balia degli agrari di varia estrazione (monarchici, liberali, democristiani), dopo lo scioglimento dell’EVIS che gli aveva tolto ogni credibile copertura ideologica “nobile”. E tuttavia la ricostruzione ufficiale ad oggi appare poco credibile, quanto piuttosto sembra essere stata un’azione dimostrativa e intimidatoria contro le rivendicazioni contadine, nella quale il ruolo dei “briganti” era stato tutto sommato secondario, quasi da “capro espiatorio”, rispetto a non ancora certamente identificate collusioni tra mafiosi, agrari, repubblichini (fascisti) e pezzi deviati dello Stato, probabilmente con la conoscenza di tali accordi anche da parte dei massimi vertici delle sinistre isolane, che – nel nuovo contesto internazionale – preferirono forse accettare ed essere tollerati come opposizioni e fare propria la “vulgata” secondo cui della strage erano colpevoli i … separatisti, che avevano sciolto l’esercito da più di due anni.

La I legislatura (1947-1951) è retta da fragili governi a guida democristiana, poiché, a destra della DC, sono fortissime le destre tradizionali, più o meno di ispirazione agraria (i monarchici, i liberali, i qualunquisti, e i separatisti del MIS), mentre a sinistra era forte il Blocco del Popolo (unione di socialisti e comunisti) che addirittura disponeva della maggioranza relativa (mentre i separatisti di sinistra del MISDR non erano riusciti ad entrare in Assemblea). In questa legislatura, tuttavia, si devono al primo Presidente, Giuseppe Alessi, i primi coraggiosi passi nel costruire dal nulla una struttura amministrativa regionale e l’appropriazione di quasi tutte le entrate tributarie spettanti alla Regione.

Sempre in questa legislatura è varata la Riforma Agraria (con una legge parallela a quella emanata dallo Stato per il Continente). Per quanto i vecchi latifondisti siano ben indennizzati e per quanto la riforma polverizzi la proprietà, rendendola improduttiva e quindi non riuscendo a spezzare la spirale del sottosviluppo e dell’emigrazione, questa rappresenta però una svolta epocale. La Sicilia “feudale” è colpita a morte e lentamente sparisce, facendo cambiare pelle al Popolo siciliano, che rapidamente lascia i borghi dell’interno e si inurba nei centri amministrativi e sulla costa, con un cambio radicale anche del sistema economico, non più centrato soltanto sull’agricoltura o lo zolfo, ma differenziato in vari settori, con un ruolo preponderante dei servizi, e della nuova “capitale”, Palermo, ormai sempre più la “Città della Regione”.

Nel clima di rinnovata speranza si pensa di rivitalizzare la Borsa Valori di Palermo, rimasta praticamente in stato di quiescenza dallo scoppio della I Guerra mondiale, inaugurandone una nuova sede (1950). La regione avrebbe poi tentato di far emettere titoli azionari al portatore per stimolare gli investimenti e il settore finanziario, ma questo tentativo fu bloccato dalla giurisprudenza costituzionale. L’assenza di un’imprenditoria che non fosse familiare avrebbe comunque poi fatto progressivamente declinare comunque l’importanza della piazza finanziaria palermitana, per renderla quasi inoperosa dopo la nazionalizzazione delle imprese elettriche del 1964, con un solo agente di cambio, fino alla sua definitiva soppressione nel 1992.

La II legislatura (1951-1955) è già saldamente in mani democristiane, spalleggiata da varie formazioni, alcune delle quali autonomiste o con persistenze indipendentiste. Il Presidente Restivo riesce, sia pure in una Regione “parlamentare”, a condurre un governo di legislatura, caso unico più che raro. La Regione sembra paga dei suoi traguardi. Riesce anche a produrre qualche leggina sulla fiscalità di vantaggio; la Sicilia sembra recuperare anche lo svantaggio con il Nord, ma il dualismo strutturale non è mai seriamente intaccato.

La III legislatura (1955-1959) è quella che segna la rottura definitiva del sogno autonomista. Le norme transitorie in materia fiscale non sono mai superate. Lo Stato ricusa alla Regione la potestà tributaria, rinforzato dalla formale scomparsa degli autonomisti dall’Assemblea. Intanto nella DC la generazione dei “notabili” alla Alessi è superata dalla corrente fanfaniana, molto più morbida nei confronti delle istanze di Roma e di Confindustria, guidata da Giuseppe La Loggia, pure se questi, almeno nella forma, non rinuncia alle prerogative autonomistiche della Regione, ormai in chiave apertamente assistenziale. La corrente fanfaniana, però, ai livelli più bassi, soprattutto al Comune di Palermo, ha ormai i volti di Ciancimino, di Lima, e di altri politici apertamente compromessi con il potere criminale di Cosa Nostra, già “sbarcato” insieme alle truppe USA, e ora deciso ad occupare le stanze del potere senza più troppe mediazioni.

La svolta è nel 1956: la creazione della Corte Costituzionale svuota l’Alta Corte del numero di giudici necessario per farla funzionare. Per un anno circa è braccio di ferro tra Stato e Regione. Nel 1957 una sentenza (a nostro avviso deficitaria per mancanza di competenza naturale) della Corte Costituzionale dichiara forzosamente “assorbite” le funzioni dell’Alta Corte dentro quelle della Corte Costituzionale. Tale sentenza non è però immediatamente esecutiva. Il Parlamento, riunito in seduta comune, stava per nominare i membri mancanti dell’Alta Corte quando, su istanza dell’allora Presidente Gronchi, la nomina venne “sospesa” in attesa che una legge costituzionale di interpretazione autentica non valesse a regolare i rapporti tra le due corti; legge costituzionale che però da allora non è mai più arrivata.

  • 3 – Il Milazzismo

La soppressione de facto dell’Alta Corte fu un vero golpe con cui l’Autonomia siciliana veniva colpita a morte. Da allora in poi, a “colpi” di sentenze della Corte Costituzionale, lo Statuto della Regione sarebbe stato smontato pezzo per pezzo, fino a ridurlo a nient’altro che una semplice “devoluzione di funzioni amministrative” (e in parte, sempre più piccola nel tempo, di risorse erariali), priva di qualunque sostanza e funzione socio-economica.

Sarebbe però errato dire che la Regione (intesa come comunità politica) non reagì per nulla a tale colpo.

Gran parte della classe politica democristiana, infatti, aveva lottato contro l’indipendentismo ma era intrisa di sincera cultura autonomistica. La Sicilia aveva sì l’anomalia di essere regione autonoma senza partiti autonomi, ma i partiti “italiani” erano tutti, chi più chi meno, fautori dell’Autonomia, considerata patrimonio politico comune a tutti.

La reazione era dovuta anche a sostanziali conflitti su diversi piani: quello finanziario delle risorse tributarie, quello dei modelli di sviluppo, nel quale l’industria siciliana, con la sua piccola “rimonta” degli anni ’50, e con i suoi sogni di grandezza, criticava i “monopoli” favoriti dal governo italiano, quello dell’energia, legato alle recenti scoperte degli idrocarburi e alle promesse che suscitava l’industria petrolchimica e termoelettrica.

E questa reazione trovò sbocco nel 1958 in una “Rivolta parlamentare”, in cui circa mezza DC uscì allo scoperto, dando vita ad un partito autonomista cattolico siciliano, l’Unione Siciliana Cristiano-Sociale, guidata da Silvio Milazzo, che mise insieme gli industriali di Sicindustria e gli agrari, ancora forti. A questi si unirono le opposizioni di sinistra e, per un certo tempo, anche quelle di destra, mettendo la DC, ancora potente del resto, all’opposizione.

Per 18 mesi circa la Sicilia resistette con un governo autonomo e contrapposto a quello nazionale, capace di un blocco sociale promettente e in grado di dare linfa nuova al progetto autonomistico. Le elezioni del 1959 (con cui iniziò la IV legislatura, fino al 1963) segnarono un pareggio, tra gli autonomisti e i loro alleati da un lato e la vecchia DC che, seppure ancora all’opposizione, dimostrò di essere ancora saldamente la forza maggiore in Sicilia.

Il Milazzismo, naturalmente, godette di pessima stampa italiana, interessata a dipingere l’operazione come una bieca unione di interessi di potere, nascondendo la reale posta in gioco, che era quella dell’emancipazione della Sicilia dal colonialismo interno. Interessanti in tal senso gli aperti intendimenti di procedere a strumenti di pianificazione economica, all’apertura dell’esperienza delle partecipazioni industriali regionali (con una finanziaria regionale, la SOFIS), all’accelerazione, tramite l’Ente Siciliano di Elettricità (altra finanziaria regionale) dell’elettrificazione rurale. La fragilità dell’ordinamento parlamentare, però, che rendeva gli esecutivi deboli rispetto alle burrasche assembleari, non aiutava certo un Governo che avrebbe avuto bisogno di maggiore coesione interna. La mafia rampante tentò di infiltrare il nuovo debole sistema di potere, soprattutto per mezzo degli esattori Salvo, ciò che però le sarebbe pienamente riuscito soltanto alla sconfitta dell’autonomismo e alla definitiva normalizzazione politica dell’Isola.

Il prevalere di ideologie “italiane” sull’interesse siciliano, la mancanza di altri soggetti politici siciliani forti, indebolirono l’esperimento, mentre nel frattempo i neofascisti di Grammatico abbandonarono la maggioranza, non potendo più giustificare al proprio interno una collaborazione con un esecutivo che vedeva l’appoggio, all’altro estremo, dei comunisti di Macaluso.

Ma ciò che fece definitivamente pendere la bilancia dal verso del centralismo furono due fattori a quei tempi invincibili. Il primo era quello confessionale. Per quanto avesse caratterizzato in senso cattolico e devozionale il suo partito, Milazzo non sfuggì alla scomunica della Chiesa cattolica, il cui primate di Sicilia, cardinale Ruffini, trovava intollerabile la cooperazione politica con partiti apertamente atei come il partito comunista, o comunque marxisti come il partito socialista. Il sostegno della Chiesa alla DC non venne mai meno durante l’anno e mezzo di rivolta autonomista e i molti cattolici che non seguirono gli indirizzi ecclesiastici dovettero farlo su un piano strettamente personale, e in una società in cui il richiamo religioso era ancora particolarmente potente.

Il secondo fu l’errore di un viaggio in Unione Sovietica fatto da Corrao, numero due del partito, ed esponente della sua “ala sinistra” (Milazzo era invece su posizioni molto conservatrici).
La paura che si creasse una nuova “Cuba” nel centro del Mediterraneo internazionalizzò la questione e, con ogni probabilità, segnò la fine dell’esperienza.

Con un finto scandalo si travolse la maggioranza parlamentare già nel 1960. Dopo brevi tentativi di governi eterogenei, affidati all’autonomista dissidente Majorana della Nicchiara (un monarchico in realtà) e al socialista Corallo, la comunità politica siciliana si ricompatta di nuovo saldamente intorno alla DC che, però, questa volta apre ai socialisti per ampliare la propria base parlamentare. La svolta siciliana, guidata dal DC D’Angelo, costituisce la Sicilia per la prima volta “laboratorio politico nazionale”, giacché l’esperimento di aprire alla sinistra moderata, certamente con la benedizione USA, diventerà di lì a poco un nuovo blocco politico destinato a governare l’Italia intera per molti anni.

Gli autonomisti, nati come partito di governo, non reggono alla prova dell’opposizione. Si spaccano in due tronconi: quello di sinistra, con Corrao, riesce ad eleggere un senatore alle elezioni politiche del 1963, ma poi sostanzialmente questo confluisce nel PCI, così come già era successo a Varvaro, esponente di sinistra del MIS, anni prima; quello di destra, con lo stesso Silvio Milazzo, è rapidamente abbandonato da tutti e si dissolve.

  • 4 – La lunga e opaca stagione del “Centro-sinistra”

Il centro-sinistra, dapprima con D’Angelo, poi con altri presidenti piuttosto “anonimi”, avrebbe governato silenziosamente la Sicilia per altri tre lustri abbondanti circa, senza alcuna possibilità di ricambio: a sinistra i comunisti condannati a una “opposizione di sua maestà”, a destra un piccolo MSI (i neofascisti), sostanzialmente “congelato” da un punto di vista politico, e, in difficoltà e regresso, ciò che restava dei liberali. In quest’epoca, infine, il rapido collasso e la scomparsa dei monarchici, nonostante il tentativo estremo di raggruppamento nel PDIUM: in Sicilia erano stati dal Dopoguerra il principale referente dell’aristocrazia latifondista; scomparso quel mondo, vengono meno i presupposti sociali del consenso politico. I due partiti di governo (DC e PSI) con i due piccoli alleati (PSDI e PRI), sono così un nuovo blocco di potere quasi da partito unico. Così vanno avanti le legislature V (1963-1967), VI (1967-71) e gran parte della VII (1971-76), quasi senza storia.

Il Governo D’Angelo si dava in qualche modo tono di rinnovamento politico e di trasparenza, ma era più apparenza che realtà. La fine dell’Autonomismo comportò per lo Stato un “dividendo” da erogare ai politici siciliani fedeli che lo avevano consentito.

Le partecipazioni regionali non solo furono mantenute, ma accresciute, stavolta però non in chiave anti-italiana, ma apertamente clientelare. E il clientelismo e l’assistenzialismo si eressero a pratica politica ed economica ormai incontrastata. L’Ente Siciliano di Elettricità sarebbe sopravvissuto per qualche anno alla nazionalizzazione dell’energia elettrica (nascita dell’ENEL, 1964), ma anche questo negli anni ’70 sarebbe stato sacrificato al nuovo centralismo economico. Detta nazionalizzazione, peraltro, privò per sempre la Sicilia, oltre che di operatori minori, del proprio grande gruppo elettrico regionale, la Sges-Tifeo-Stes, centralizzando a Roma ogni decisione e mantenendo in Sicilia solo un pletorico apparato burocratico (il “Compartimento di Palermo”) che poi tra la fine del secolo e gli inizi di quello successivo sarebbe stato smantellato senza alcun ricambio.

Due traguardi finanziari importanti furono raggiunti in quest’epoca. Nel 1962, dopo varie assegnazioni provvisorie, anche se ingenti, che datavano dal 1947, il Fondo di Solidarietà Nazionale fu calcolato sull’85 % delle entrate che lo Stato otteneva dalla Sicilia per imposte di produzione (in gran parte le cd. accise petrolifere). Si trattò di un capolavoro politico per entrambe le parti: da un lato lo Stato in realtà non dava nulla alla Regione se non quello che aveva raccolto in Sicilia stessa; dall’altro, favorendo un modello di sviluppo che alla lunga sarebbe stato devastante per l’ambiente, la Regione si dotava di un fiume di risorse che, effettivamente, consentirono alla Sicilia di fare grandi progressi sul piano della infrastrutturazione e dei trasporti. Purtroppo, già dagli anni ’70, queste ingenti risorse furono progressivamente distratte dalle spese infrastrutturali e assorbite dall’insaziabile assistenzialismo, fino a che nel 1990 non venne azzerato del tutto il Fondo di Solidarietà Nazionale, per essere ricostituito solo un decennio dopo ma ormai su cifre niente più che simboliche.

Altro traguardo, e altro capolavoro politico, fu il decreto attuativo della parte finanziaria dello Statuto, ottenuto nel 1965. Con esso ciò che era stato stabilito provvisoriamente nel 1948, divenne definitivo. La Sicilia, cioè, rinunciava di fatto a istituire tributi propri (se non in modo molto teorico), e quindi rinunciava alla fiscalità di vantaggio, ma in cambio introitava la quasi totalità delle entrate pubbliche in Sicilia.
Questo traguardo avrebbe consentito alla Regione di farsi carico di quasi tutti i settori amministrativi che, effettivamente, nei decenni successivi sarebbero stati accollati alla Regione stessa. Ma, per contro, a partire da allora, e progressivamente nel tempo, lo Stato ha lentamente ripreso, con proprie leggi, quelle stesse risorse, lasciando le spese a carico della Regione e quindi condannandola al sottosviluppo e alla discriminazione rispetto alle stesse altre regioni del Mezzogiorno. Nel breve termine, tuttavia, la comunità politica siciliana si vedeva data un’ampia autonomia di spesa con la quale gestire un benessere fittizio che, effettivamente, si era diffuso un po’ in tutte le classi dell’Isola.

A proposito di “interessi oscuri”, è di questi anni l’infiltrazione mafiosa a tutti i livelli della politica e dell’amministrazione siciliana. Cosa Nostra, attraverso il dominio incontrastato delle esattorie, degli appalti pubblici, in una parola, dell’economia siciliana, diventa un’istituzione non dichiarata, quasi alla luce del sole, capace di entrare e uscire dai palazzi del potere e di condizionare la politica come mai aveva fatto prima e come mai avrebbe fatto dopo.

Gli anni ’70 segnano un evidente peggioramento qualitativo, sia sul piano della tipologia della spesa, sia sul piano delle prassi parlamentari, sia sul piano delle congiunture economiche, ora meno favorevoli. Anche sul piano tributario, le grandi riforme del 1972 (introduzione dell’IVA) e del 1973 (introduzione dell’IRPEF e dell’IRPEG) sono occasione per dirottare, senza riforma del decreto del 1965, una quota crescente di risorse dalla Regione allo Stato, mentre la Regione si fa carico di un numero sempre maggiore di funzioni, non ultimo anche per la correlata istituzione delle regioni a statuto ordinario. Un segno di questo declino degli anni ’70 si ravvisa anche nella prima modifica ufficiale allo Statuto, nel 1972: la legislatura viene portata da 4 a 5 anni, in parte per omologare la sua durata a quelle delle neo-istituite regioni ordinarie, in parte perché la classe politica regionale, che aveva assimilato il trattamento economico dei deputati regionali a quello dei senatori, coglie in ciò l’occasione per estendere di un anno le proprie rendite di posizione.

  • 5 – La “solidarietà autonomistica” e il Pentapartito

Ma la crisi, economica e soprattutto morale, di una Regione che ormai appare nient’altro che lo specchio periferico dello Stato, è occasione per una nuova manifestazione di vitalità della politica locale. Il più grande partito d’opposizione, poco a poco, passa da un’opposizione “consociativa” ad una collaborazione sempre più aperta con i governi di centro-sinistra, dapprima con il Governo Bonfiglio, e poi, ancor di più, con il Governo Mattarella.

È questa la fase della cd. solidarietà autonomistica, che vede protagonisti i due maggiori partiti, la DC e il PCI, con il PSI in una difficile posizione di minore importanza. Ancora una volta la Sicilia è “laboratorio” per i governi di solidarietà nazionale che, in parallelo, si sarebbero poi sviluppati in Italia alla fine degli anni ’70 (la “solidarietà nazionale” di Andreotti, con un’apertura ai “comunisti” che, dopo l’uccisione di Aldo Moro, nel 1978, avrebbe segnato la sua fase calante).

Difficile dare un giudizio storico netto su questa fase della politica siciliana: ebbe i pregi e i difetti delle ideologie dei partiti che più la sponsorizzarono. Per un verso la Sicilia fu teatro di coraggiose riforme politiche e amministrative, come ad esempio l’introduzione del “bilancio pluriennale”, nel 1977, poi “recepita” dallo Stato italiano. Per un altro, tuttavia, si ha come un’esplosione dell’assemblearismo e del consociativismo a tutti i livelli, a discapito dell’efficienza e dell’efficacia dei servizi pubblici, che diventano sempre più sinonimo di “carrozzone” clientelare, dalla sanità, alla scuola, alla formazione professionale, ormai saldamente lottizzata da partiti e sindacati più o meno consociativi, alle partecipazioni regionali, ormai ridotte a stipendifici e “appaltifici” pubblici.

L’VIII legislatura (1976-1981), inizia apertamente nel segno della “solidarietà autonomistica”. Significativo l’aggettivo “autonomistica”, ormai del tutto privo di qualunque riferimento a conflitti con l’Italia, o a elementi identitari siciliani, ma piuttosto riferito al legame, ormai autoreferenziale, dei partiti con ciò che restava delle istituzioni regionali normalizzate.

Ma – va anche detto – che Mattarella, sia pure con estrema prudenza, tentò di far valere i diritti della Sicilia, condizionando tali pretese alle “carte in regola”, con la pretesa quindi di combattere quegli stessi interessi, anche di tipo illecito, che ormai in Sicilia erano diventati semplicemente “il sistema”.

Se fu per questa ragione, o per altre ragioni di carattere nazionale e internazionale più grandi, resta ad oggi oscuro. Sta di fatto che Cosa Nostra nel 1980 uccide Piersanti Mattarella, ponendo fine in modo brutale alla collaborazione tra democristiani e comunisti, del resto già tramontata in Italia da un anno, non molto diversamente da come era stato trucidato due anni prima Aldo Moro.

Superata questa fase, gli anni ’80 riportano la Sicilia a essere semplice periferia dell’Italia, di cui replicano in tono minore tutte le vicende politiche. In Sicilia, come in Italia, è ora la volta del “Pentapartito”, cioè di governi formati da democristiani e socialisti, con la partecipazione dei tre minori partiti laici, in piena spartizione consociativa del potere, con un’opposizione comunque molto morbida da parte del partito comunista, e i missini sempre “congelati” all’estrema destra in una sterile opposizione. Così la IX legislatura (1981-86) e la X (1986-91).

L’attività politica di questi anni consiste in pratica unicamente nella creazione di una nuova frontiera dell’assistenzialismo: il precariato pubblico. Esaurita, o quasi, la capacità di assorbimento nei ruoli della Regione e delle partecipate, ora il clientelismo trova le vie degli assunti a termine, i cd. “articolisti” la categoria principale, degli operai stagionali della forestale, dei dipendenti degli enti di formazione professionale. La Regione, ancora tutto sommato solida, riesce in qualche modo a svolgere le proprie funzioni in modo dignitoso, ma getta le basi per una vera e propria “bomba sociale” destinata ad ingigantirsi e ad esplodersi nei decenni successivi. Nel 1986 si ha un’altra irrilevante modifica statutaria sui tempi di convocazione dell’Assemblea dopo le elezioni.

L’unica “novità” di questi anni – a parte la curiosità del Natoli, repubblicano indipendentista, Presidente “per una sola notte” – è la lunga Presidenza di Nicolosi, l’ultimo presidente forse di qualche spessore e autorevolezza, capace anche talvolta di far valere i diritti della Sicilia nei confronti dello stato centrale e di abbozzare persino una rete di relazioni internazionali nel Mediterraneo. Per superare le paralisi del parlamentarismo, Nicolosi fu accusato di spostare la gran parte delle decisioni di rilievo sull’Esecutivo, su di un “governo parallelo” del Presidente; parallelo anche rispetto agli altri Assessori di espressione parlamentare.

Di quegli anni anche la forte protesta popolare contro gli “euromissili” di Comiso. La Sicilia scopriva ora il peso delle servitù militari che, a dispetto della promessa smilitarizzazione, avevano poco a poco fatto della Sicilia una delle principali piattaforme logistiche militari USA e NATO.

Gli anni in questione sono anche quelli in cui la risposta dello Stato, ma anche e soprattutto della società civile, alla sfida di Cosa Nostra, si fa sempre più alta. Lo Stato risponde all’omicidio Mattarella, mandando un Prefetto dotato di poteri speciali, il generale Dalla Chiesa. Ma questi viene ucciso nel 1982. Poco dopo sarà la volta di La Torre, esponente comunista che aveva fortemente voluto l’esproprio dei patrimoni mafiosi, e che si era eretto a coraggioso difensore dell’Autonomia rispetto alle “pelose” critiche dei soliti poteri forti italiani. Lo Stato, in realtà, ha sempre un atteggiamento ambivalente. Una parte di esso sembra reagire, con il “maxiprocesso” e la costruzione del “pool antimafia” presso il Palazzo di Giustizia (e più tardi con un’operazione militare vera e propria chiamata “Vespri Siciliani”). Un’altra parte sembra invece tenere legami proprio con Cosa Nostra, “incaricata” di mantenere in Sicilia equilibri politici necessari anche per l’Italia.

In tutto ciò il sistema comincia ad avere alcune crepe; il regime dei partiti inizia a soffrire – come in Italia del resto – di delegittimazione. Sorgono liste “fai-da-te” che conquistano scranni all’Assemblea: il primo, Susinni, fuoriuscito dai repubblicani, nel 1991, mentre Di Fresco, uscito dalla DC, aderente al MIS da giovane, fondatore dell’Unione Popolare Siciliana, manca per poco l’obiettivo. Il fenomeno sarebbe maturato del tutto solo negli anni ’90, con liste fondate da “notabili” dei voti fuoriusciti dai partiti tradizionali (Ciccio Nicolosi e Bartolo Pellegrino fra gli altri), con un rapporto con i propri elettori che ormai ricorda più le appartenenze feudali che non quelle ideologiche.

Risorge quindi, seppur timidamente, il Sicilianismo, incoraggiato e ostacolato al contempo dalla contemporanea rapida e inaspettata ascesa della “Lega Nord” all’altro capo dello Stato. Sicilianismo che ora veste i panni della “ruota di scorta” dei partiti italiani, con una blanda rivendicazione autonomista, non disgiunta da pratiche clientelari, ora invece assume i caratteri più radicali dell’indipendentismo o di un autonomismo senza compromessi, ma restando ai margini della grande scena politica, sempre dominata dai partiti maggiori italiani.

  • 6 – Il tramonto della Regione parlamentare

La crisi della I Repubblica, sul finire degli anni ’80 travolge anche il sistema di potere siciliano e lo stesso Nicolosi in persona, costretto a ritirarsi. Si fa interprete di questa “innovazione” una timida “primavera dei sindaci”, a cominciare da Orlando, sindaco di Palermo, che sbandiera il vessillo dell’antimafia come rottura con il precedente sistema. La “primavera”, però, è più di facciata che sostanziale: gli stessi sindaci, dopo il successo effimero della “Rete”, nel 1991, “trovano casa” nei nuovi partiti “nazionali” nati nella II Repubblica e sono incapaci di una reale progettualità politica nuova.

L’XI legislatura (1991-96) segna uno dei punti più bassi delle istituzioni regionali. Pur cominciata con i migliori auspici, la scomparsa, tra il 1992 e il 1994, dei partiti della I Repubblica, unitamente a una serie incredibile di scandali, per i quali più della metà del Parlamento siciliano è inquisito o arrestato, trasformano le istituzioni siciliane in una sorta di “casa di fantasmi” sopravvissuta a sé stessa. Senza alcuna novità degna di nota la politica siciliana galleggia sul vecchio clientelismo, e sul rapido trasformismo nel quale i “politici” diventano una casta di professione, impegnata a mantenere la Sicilia nel sottosviluppo e nel voto di scambio, con un cambio repentino di “casacca” ogniqualvolta ciò si rende necessario. Una riforma dei concorsi pubblici all’inizio della legislatura, da allora e per molti anni da svolgere “per soli titoli”, in pieno clima di “Mani Pulite”, consente una ventata di moralizzazione nella burocrazia regionale e l’immissione di numerosi nuovi quadri che per molti anni ne costituiranno la migliore tecnostruttura.

I “fatti di mafia” raggiungono il culmine proprio in questi anni con l’assassinio dei giudici Falcone e Borsellino, nonché del sacerdote Puglisi. Vi è anche da dire che, mai come in questo momento, i rapporti tra Stato e mafia sono stati obliqui e ingarbugliati, al punto che sulla morte dello stesso Borsellino si addensano tutt’oggi molti indizi sul fatto che non sia stata Cosa Nostra ad ucciderlo bensì segmenti deviati dello stesso Stato italiano.

Da allora in poi, però, Cosa Nostra entra in un lento ma inesorabile declino. Delegittimata nella società, sempre meno appoggiata, almeno apertamente, dallo Stato, non più funzionale alla “dominazione coloniale” della Sicilia, e lentamente sostituita da nuove forme di occupazione criminale del potere, meno “militari” e più sottili, spesso vestite proprio con i panni della stessa antimafia.

In questo punto di minimo la Sicilia comincia a sperimentare anche un atteggiamento nuovo e più arrogante da parte dello Stato, ormai irrispettoso persino della forma dell’Autonomia: privata del Fondo di Solidarietà Nazionale, mutilata nella sua autonomia legislativa più elementare, derubata in pochi anni di tutto il proprio sistema finanziario e industriale, a favore dei grandi gruppi settentrionali, con la totale complicità della classe politica locale. Nel 1994 la Sicilia perde il controllo del Banco di Sicilia (e della Sicilcassa che da questo è assorbita), e con il Banco perde simultaneamente ogni autonomia finanziaria degna di nota.

Volendo fare un bilancio, la Regione parlamentare che tramonta negli anni ’90 (1947-2001), pur godendo nel complesso di pessima storiografia, ha però anche alcuni meriti storici. Grazie ad essa, e in parte anche agli interventi straordinari statali per il Mezzogiorno, dal Dopoguerra la Sicilia si era dotata di un sistema di trasporti autostradali, seppure incompleto, di un nuovo aeroporto per la città di Palermo con due piste, Punta Raisi, della costruzione di svariate aree industriali, della costruzione di numerose dighe e laghi artificiali per combattere l’annoso problema della siccità, dell’elettrificazione rurale nelle campagne e così via con molti interventi in vari campi infrastrutturali. La Regione era anche stata all’avanguardia nell’istituzione di parchi naturali e zone e riserve protette. Anche la legislazione regionale, nel campo della sanità, del bilancio, dei beni culturali, era stata capace di qualche capacità distintiva, nei primi anni persino nel campo della politica tributaria. L’entrata nell’era della globalizzazione, viceversa, segnerà un progressivo deterioramento o comunque rallentamento degli investimenti infrastrutturali, talvolta neanche in grado di garantire l’ordinaria manutenzione delle strutture esistenti, e comunque un evidente scadimento della produzione legislativa.

Il vento delle riforme istituzionali italiane questa volta arriva tardi in Sicilia: la XII legislatura (1996-2001), l’ultima di quelle parlamentari, con Presidente e Assessori espressi esclusivamente dall’Assemblea, rappresenta ormai un’anomalia “proporzionale”, in un sistema italiano ormai decisamente orientato verso il “maggioritario”. Ma questa legislatura resta sostanzialmente identica alla precedente, con il lento incancrenirsi di tutti gli storici problemi economici e sociali della Sicilia, e con la semplice “ridenominazione” gattopardesca del personale politico secondo le nuove formazioni partitiche italiane: da un lato il centro-destra di Forza Italia, Alleanza Nazionale e i vari tronconi post-democristiani, dall’altro il centro-sinistra del Partito Democratico della Sinistra, poi Democratici di Sinistra (in ogni caso post-comunisti), della “Margherita” di centro-sinistra, e di vari soggetti, spesso definiti “cespugli” quasi in modo dispregiativo, rispetto alle formazioni post-comuniste. Marginale, ma progressivamente in crescita, il Sicilianismo di “centro-destra” (con Nuova Sicilia), presente anche il Sicilianismo radicale, con componenti eterogenee, ma incapace di mantenere una stabile rappresentanza in Assemblea, nonostante il relativo successo del 1996 (Noi Siciliani, lista che univa semplici autonomisti sturziani, sicilianisti veri e propri delle più svariate tendenze ideologiche, da destra a sinistra, e dai gradi più o meno spinti di autonomismo, e finanche gli indipendentisti). Si noti che, in ultimo sussulto di dignità, la Regione parlamentare prima di estinguersi dona finalmente alla Sicilia una “bandiera”: dopo decenni di tabù politico, preceduta (1990) da una legge sullo stemma e sul gonfalone, finalmente la Trinacria su sfondo giallo e rosso prende a sventolare dalle scuole e dagli uffici pubblici (2000).

In queste condizioni si chiude, nel 2001, la storia della Regione “parlamentare”, tra qualche luce e molte più ombre. Il 2001, infatti, vede una doppia riforma costituzionale, destinata ad incidere profondamente nella storia di Sicilia a noi più vicina. La prima riforma interessa tutta l’Italia, ed è il cosiddetto federalismo, anche se questa dizione è un po’ impropria perché lo Stato italiano resta pur sempre unitario e regionale. In realtà, per fermare le pulsioni separatiste settentrionali, lo Stato devolve molte funzioni alle regioni, e soprattutto introduce elementi di federalismo finanziario. Ciò che interessa la Sicilia è che in tal modo si riduce la già debole funzione perequatrice dello Stato italiano e si aggrava la Questione meridionale, mentre le differenze di autonomia tra le regioni a statuto ordinario e quelle a statuto speciale si riducono in maniera sensibile, contribuendo ad una relativa normalizzazione delle seconde. Teoricamente la riforma del 2001 avrebbe dovuto far salve le maggiori forme di autonomia ed attribuirne di nuove; di fatto la morsa dello Stato sulla Regione ha continuato sempre lentamente a stringersi.

La seconda, invece, è una riforma specifica dello Statuto siciliano, fatta nello stesso anno. In buona sostanza la Sicilia cambia forma di governo, passando da regione parlamentare a regione presidenziale, con un Presidente eletto direttamente dai cittadini, con poteri molto più forti nei confronti dell’Assemblea (ad esempio gli assessori sono nominati e revocati da questi senza bisogno di consenso parlamentare) che non può sfiduciarlo senza decadere a sua volta. La stessa Assemblea vede introdurre un premio di maggioranza attribuito al gruppo di liste collegate al candidato presidente risultato vincente, senza abbandonare del tutto il sistema proporzionale della I Regione. Una riforma elettorale che entra in vigore 5 anni dopo (2006) introduce uno sbarramento elettorale al 5 % e completa il quadro, determinando una drastica semplificazione del sistema partitico.

Queste riforme determinano un vero e proprio cambio radicale della politica siciliana, trasformata in una piccola “repubblica presidenziale” nelle mani del “governatore” (come impropriamente viene ora chiamato il Presidente eletto direttamente dai cittadini, sul modello analogo degli stati USA). Il legame diretto di questo con Roma, lo svuotamento delle funzioni legislative dell’Assemblea ad opera di sentenze della Corte Costituzionale sempre più severe, rendono il Parlamento siciliano una “cittadella del privilegio” di notabili della politica, esautorata di reali poteri, con una produzione legislativa rada e scadente, limitata al sollecito di residuali favori alle clientele elettorali. Per questa ragione si parla sempre più spesso di “Regione presidenziale” o II Regione, a partire almeno dalla XIII legislatura.

Negli ultimi giorni della Regione parlamentare il trasformismo e il clientelismo, ormai degenerati, danno il peggio di sé. La sinistra, da sempre minoritaria, riesce per breve tempo ad assumere la Presidenza, con il “democratico di sinistra” Capodicasa, alleato della sempre più potente UDC di Cuffaro, con le destre provvisoriamente all’opposizione. A questo governo si deve una dissennata istituzione dei “dirigenti di terza fascia”, anomalia unica in Italia che sarebbe perdurata sino al Governo Lombardo, che li avrebbe posti “a esaurimento”, e che consentiva intanto di innalzare al ruolo di dirigenti migliaia di funzionari apicali; anomalia che per decenni avrebbe poi giustificato linciaggi pubblici della Regione e della Sicilia tutta sui media ufficiali, nonché ritorsioni finanziarie dallo Stato sempre più disumane.

  • 7 – La Regione presidenziale

All’inizio della II Regione lo schieramento di centro-destra sembra un blocco di potere inespugnabile. La XIII (2001-06) e la XIV (2006-08) legislatura, vedono la stabile Presidenza del democristiano Totò (Salvatore) Cuffaro, quasi simbolo di quest’epoca.

Allievo politico del DC Calogero Mannino, uno dei “potenti” dell’ultima regione parlamentare, si era già distinto negli ultimi anni di questa per il gran numero di preferenze personali, come assessore del Governo Capodicasa (sinistra), e soprattutto per il particolare “metodo politico”.

Cuffaro porta il sistema dell’ultima Regione alle sue estreme conseguenze. Il clientelismo e l’assistenzialismo diventano un sistema generalizzato di governo. Le assunzioni, dirette e indirette, nei ranghi della Regione, raggiungono i livelli massimi possibili e il record storico. La Regione, priva di risorse fresche e già colpita da politiche restrittive da parte dello Stato, continua a espandersi contraendo debiti e peggiorando il livello dei servizi e degli investimenti pubblici. L’immagine delle istituzioni pubbliche degrada progressivamente, ma non si delineano alternative a un sistema politico bloccato.

Nella maggioranza c’è un’alleanza tra post-democristiani, Forza Italia (il partito del leader/imprenditore italiano Silvio Berlusconi), Alleanza Nazionale (evoluzione moderata del vecchio MSI neofascista) e vari partiti autonomisti (dapprima essenzialmente “Nuova Sicilia”, poi il sempre più grande e agguerrito “Movimento per le Autonomie” del post- democristiano Raffaele Lombardo, anche lui allievo politico di Calogero Mannino). Ma, in realtà, in quegli anni, si assiste a un continuo “cambio di casacche” da parte dei politici del blocco di centro-destra, i quali rispondono in sostanza solo ai loro parcellizzati elettorati personali.

La cd. sinistra, nelle sue varie denominazioni, si limita ad un’opposizione debole e non troppo diversa, nel metodo e nei contenuti, rispetto al blocco dominante. Vincente talvolta a livello amministrativo, è ripetutamente sconfitta nelle elezioni regionali e politiche. Il 2001 è l’annus horribilis della sinistra: tutti i 61 collegi uninominali di Camera e Senato sono attribuiti al centro-destra e la sinistra, o centro-sinistra, deve accontentarsi di modesti ripescaggi al proporzionale. Alle regionali dello stesso anno l’eterno sindaco di Palermo, Orlando, è sconfitto nettamente, mentre ancora peggiore e fallito (solo 4 deputati) è il tentativo del centrista D’Antoni (già a lungo sindacalista cattolico della CISL) di creare un terzo polo.

Nel 2006 il centro-sinistra ci riprova con Elvira Borsellino, sorella del più noto giudice ucciso nell’attentato di Via D’Amelio nel 1993. Ma il risultato non è migliore. Si segnala il tentativo, nelle stesse elezioni, per certi versi un po’ velleitario, del post-missino Nello Musumeci, di dare vita a un autonomismo di destra (Alleanza Siciliana). I risultati modesti lo inducono però a riconfluire nel centro-destra “italiano”.

In realtà i primi anni del 2000 segnano una lenta crescita del Sicilianismo. Reduci dall’esperienza del 1996 i sicilianisti si disperdono in un pulviscolo di associazioni e movimenti. Tra questi si segnala, per il particolare attivismo su internet, un’associazione di siciliani all’estero, “L’Altra Sicilia”, di Francesco Paolo Catania, che contribuisce alla rinascita di un autonomismo radicale, alle soglie dell’indipendentismo. Questo movimento culturale, però, resta minoritario, pur se viene raccolto dai “politici di professione” che ne fanno una bandiera per fare una leggera fronda all’interno degli schieramenti nazionali. Prima “Nuova Sicilia” di Bartolo Pellegrino e “Patto per la Sicilia” di Ciccio Nicolosi, poi sarà appunto la volta a destra di Nello Musumeci con Alleanza Siciliana. Persino a sinistra ci sono tentativi di federalizzare i partiti di rappresentanza o di crearne uno nuovo (“Sicilia Democratica” dell’on. Morinello, tentativo poi abortito). Ma sarà al centro che il tentativo avrà successo. Raffaele Lombardo crea nel 2004 il “Movimento per l’Autonomia”, e ottiene nel 2006 un discreto successo elettorale, inglobando l’anno dopo il piccolo partito di Pellegrino.

Lombardo però resta incerto tra l’autonomismo siciliano (peraltro assai moderato, sul modello che fu di Milazzo) e una sorta di “leghismo meridionale”, che viene inutilmente tentato per anni. Sta di fatto che intanto ruba spazi e consensi, non solo clientelari ma anche d’opinione, al tradizionale centro-destra.

In questo frangente la Sicilia è travolta da uno scandalo senza precedenti: Cuffaro è accusato, e poi condannato, per un delitto infamante, “concorso esterno in associazione mafiosa”. Dopo pochi giorni di esitazioni, è costretto a dimettersi (2008). La società siciliana, tuttavia, sembra poco scossa da questo terremoto istituzionale.

Le elezioni anticipate (2008) vedono il trionfo dell’autonomista Lombardo (XV legislatura, 2008-12) a capo di una coalizione di centro-destra. La “sinistra”, guidata dalla candidata Finocchiaro, ottiene l’ennesima sconfitta, dimostrando la propria cronica incapacità di intercettare reali consensi. Tra i candidati “minori” si segnala una prima comparsa degli anti-sistema “grillini” di Sonia Alfano, “5 Stelle” ante litteram, che però non riescono ancora a superare lo sbarramento elettorale. Seguivano due minime candidature di estrema destra.

Se le legislature di Cuffaro erano state critiche quella di Lombardo è drammatica.

La crisi finanziaria siciliana, però, viene da lontano.

Dopo una lunga integrazione, iniziata nel 1951 con l’istituzione della CECA, proseguita nel 1957, con la CEE, da cui l’agricoltura siciliana avrebbe tratto a lungo significativi contributi, nel 1968 con l’abolizione delle dogane, nel 1987 con l’Atto Unico di Bruxelles (le quattro libertà di circolazione di merci, servizi, persone e capitali), nel 1991 con il Trattato di Maastricht (con cui nasce l’Unione Europea), nel 1999-2002 con l’introduzione della moneta unica europea, ora entra in vigore (2009) il Trattato di Lisbona, con il quale sostanzialmente gli stati, in particolare quelli dell’eurozona, perdono la propria piena sovranità in materia di finanze pubbliche. Quest’ultima svolta, sebbene lentamente preparata e relativamente silenziosa, è in realtà epocale. Secondo taluni da allora l’Italia non è più propriamente un paese del tutto sovrano ma è entrata a far parte di una sorta di “Confederazione” sovranazionale. Questo fa sì che la stessa storia siciliana non possa essere più considerata solo “italiana”, ma ora anche “europea”.
Questo, a sua volta, determina una stretta sui conti pubblici che porta lo Stato italiano, al proprio interno, a rivalersi in parte sui suoi enti locali, in particolare su quelli delle aree più deboli del Paese. La Sicilia, nonostante i tagli e il risanamento intrapresi da Lombardo, specie nella sanità, già fuori controllo negli anni passati, diventa oggetto di una vera e propria aggressione finanziaria che ne compromette la funzionalità.

Le rivendicazioni autonomiste di Lombardo, in condizioni di scarsità di risorse, fanno esplodere le contraddizioni. Il governo italiano, allora Berlusconi-Tremonti-Bossi, a forte trazione nordista, si trova a marginalizzare l’alleato meridionale. Lombardo rapidamente perde la maggioranza parlamentare, per la defaillance prima dei centristi e poi di parte dei forzisti. Ma non si dimette e cerca, di volta in volta, maggioranze parlamentari variabili, rimettendo in gioco i “democratici” dell’opposizione, e appoggiandosi saldamente su Confindustria, già dai tempi di Cuffaro di fatto presente in ogni maggioranza parlamentare.

Gli industriali in questi anni giocano però un ruolo molto diverso dagli anni di Milazzo. Ora vestono intanto i panni dell’antimafia di maniera, più tardi travolti da scandali che svelano un quadro di cupa corruzione, e si mostrano assai sensibili agli interessi esterni di sfruttamento di occasioni di affari in Sicilia piuttosto che a quelli di uno sviluppo economico autonomo della Sicilia.

Lombardo alterna rivendicazioni, spesso sterili, a pratiche clientelari di nomina di fedeli e fedelissimi in tutti i posti possibili di sottogoverno, sopravvivendo di anno in anno con un tatticismo esasperante che presto gli fa esaurire l’iniziale consenso che aveva distinto la sua Presidenza.

Non scioglie le contraddizioni, limitandosi a dire più spesso di sì, come aveva già fatto sempre Cuffaro prima di lui, in molte occasioni, come ad esempio quando l’Italia sceglie la Sicilia per l’installazione del MUOS, un impianto satellitare americano assai contestato per i suoi effetti ambientali e sulla salute, e solo qualche no, come ad esempio sul disegno di installare in Sicilia quattro mega-inceneritori di rifiuti.

Non mancano timidi tentativi di riscatto, anche su aspetti dall’alto valore simbolico. Tra questi almeno la “Festa dell’Autonomia” nelle scuole (il 15 maggio, anniversario della conquista dello Statuto speciale, poi soppressa nel 2018), o la teorica introduzione della storia, dello Statuto e della lingua siciliana (prudentemente chiamata però “patrimonio linguistico”) con una legge del 2011, poi restata in gran parte lettera morta. Altre riforme lombardiane riguardano il comparto sanitario e la ridenominazione di alcuni assessorati regionali, in chiave di maggiore sovranità (l’Assessorato alle finanze che diventa “all’economia”, o i beni culturali cui si affianca “l’identità siciliana”). Riforme, invero, più nominali che reali.

Il 2012 vede una rivolta spontanea, iniziata da autotrasportatori ed agricoltori, ma poi seguita da centinaia di migliaia di Siciliani, tra cui molti studenti che sventolano la bandiera della Sicilia, e che in un caso arrivarono anche a bruciare la bandiera italiana. Rivolta pacifica questa, passata alla storia come la “Rivolta dei Forconi”, in cui furono posti i blocchi alle strade e allo Stretto, tolti poi solo alla condizione che il Governo aprisse un tavolo sull’agricoltura, ma soprattutto sull’attuazione dello Statuto, ormai richiesta a gran voce da ampi strati della società. Davanti a Palazzo d’Orléans la folla minacciava di sfondare la porta e occupare le sedi delle istituzioni, ma i leader dei Forconi ne ebbero paura e preferirono trattare. Lombardo coglie l’occasione per istituire una commissione straordinaria Stato-Regione, che affrontasse una volta per tutte la Questione Finanziaria siciliana nonché l’attuazione dello Statuto. La Regione, su una bozza redatta dall’autore di queste pagine, propone allo Stato di non chiedere più alcun trasferimento ma di potere disporre liberamente e integralmente di tutte le entrate tributarie maturate nel territorio della Regione. Lo Stato non risponde; di fatto è scontro. I media italiani rispondono indirettamente, al posto dello Stato, alla proposta siciliana di totale devolution, millantando un imminente fallimento della Regione che avrebbe travolto il paese intero. Lombardo è sotto assedio. Nel frattempo il Popolo siciliano, tolti i blocchi, si divide e si disperde, facendo sgonfiare rapidamente quell’attimo di consenso generale che si era registrato a inizio d’anno.

Alla fine lo scontro vede soccombere il Presidente, come già era successo a Milazzo circa mezzo secolo prima, ma questa volta per via giudiziaria. Coinvolto anche questo Presidente in un processo di mafia, rivelatosi poi del tutto infondato molti anni dopo, la XV legislatura viene travolta nuovamente da scioglimento ed elezioni anticipate.

Le elezioni dell’autunno del 2012 vedono la destra tradizionale divisa tra quella tradizionale (guidata da Musumeci, nel frattempo rientrato nei ranghi) e una teoricamente autonomista (guidata dall’ex forzista Micciché, già Presidente ARS ai tempi di Cuffaro, fondatore di Forza Italia in Sicilia, per breve tempo a capo di una formazione vagamente meridionalista, Grande Sud, cui si aggregano le truppe in ritirata dell’MPA di Lombardo, comunque ancora capaci di esprimere una certa rappresentanza parlamentare). Al di là delle sigle, tuttavia, si vocifera di un patto sotterraneo, tra la destra e la sinistra “nazionale” per lasciar vincere quest’ultima nel segno di una continuità delle politiche di sfruttamento esterno della Sicilia. Sotto la bandiera dell’antimafia, infatti, sarà questa volta Saro Crocetta, già sindaco di Gela, a diventare presidente della XVI legislatura (2012-17) e a far prevalere, per la prima volta nella storia della Regione, la sinistra e, sempre più, con il consenso di Confindustria.  In salita impetuosa, ma ancora incapaci di prendersi la Regione, i “5 Stelle” di Cancelleri e, a estrema sinistra, un voto di raccolta su Giovanna Marano. Le altre candidature minori, di bandiera, sono quella dei “Forconi” ormai in sfacelo, di Mariano Ferro, quella personale, di “Sicilia Vera”, di Cateno De Luca, persino di un discendente di Sturzo, e di due minime formazioni, l’una comunista, l’altra civica.

Se la legislatura di Lombardo era stata drammatica, quella di Crocetta si rivela tragica.

Il quadro politico che emerge dalle elezioni risulta molto frammentato. All’opposizione emerge potente il movimento fondato dal comico Beppe Grillo, “5 Stelle”, che però talvolta coopera su singoli provvedimenti con il Governo regionale di Crocetta.

Questi, senza maggioranza parlamentare assoluta, sin dall’inizio della legislatura, naviga letteralmente a vista per tutto il quinquennio. La Sicilia è adesso letteralmente “punita” dal Governo italiano per il sussulto autonomistico avuto nella precedente legislatura.

Le istituzioni regionali, formalmente non abrogate, toccano il loro minimo storico, materiale e morale. Lo Stato toglie alla Sicilia svariati miliardi l’anno di quelli che le toccano per Statuto, lasciandole il peso dell’amministrazione pubblica, impone la rinuncia al gettito dei ricorsi in Corte Costituzionale per svariati miliardi, impone la cancellazione di tutti i crediti della Regione verso lo Stato dal proprio bilancio, impone persino la rinuncia alla propria potestà legislativa, con leggi-fotocopia di quelle “nazionali”, i trasferimenti verso gli enti locali sono quasi azzerati, alla Sicilia è imposto un contributo al risanamento della finanza pubblica quadruplo rispetto a quello delle altre regioni, assunzioni e contratti pubblici sono bloccati sine die, lo Stato impone – infine – tutti gli assessori all’economia nominandoli dall’esterno quasi con il ruolo di commissario rispetto a un Presidente ridotto a rappresentante di facciata. Al culmine (2016 e 2017), la Regione rinuncia formalmente ai tributi devoluti IRPEF e IVA (già ampiamente erosi dallo Stato in modo illegale) e si accontenta di una modesta compartecipazione, quasi a discrezione dello Stato; in cambio lo Stato non dà alcun ristoro per le funzioni svolte dalla Regione e non più compensate dai tributi sottratti dallo Stato, ma anzi impone tagli lineari del 3% l’anno sulla spesa corrente. La violenza istituzionale nei rapporti tra Italia e Sicilia raggiunge livelli inusitati.

Nel frattempo la Sicilia è aggredita su tutti i media nazionali, con linciaggi quotidiani, spesso senza contraddittorio, additata come la responsabile di tutti i problemi nazionali. Esplode infine in tutta la sua drammaticità il problema insoluto dei precari pubblici: forestali, comunali precari, addetti alla formazione e all’orientamento professionale.

L’Autonomia stessa, ormai paralizzata del tutto, viene additata come la fonte di tutti i mali e da più parti ne viene invocata l’abrogazione da campagne orchestrate da media legati ai principali partiti italiani di governo e di opposizione. Appare quasi un miracolo che lo Statuto non sia stato travolto in questo quinquennio. Tuttavia, dietro diktat romano, il numero dei deputati è ridotto da 90 a 70 nel 2013, nel quadro di una progressiva normalizzazione della Sicilia rispetto alle altre regioni.

Le condizioni economiche e sociali della Sicilia risentono di questo rinnovato colonialismo interno e diventano a dir poco disastrose. Le infrastrutture, in particolare quelle di trasporto, abbandonate a sé stesse, vanno letteralmente in rovina. Disoccupazione e precariato esplodono, in particolare tra i giovani, che iniziano un silenzioso esodo di massa, da cui interi paesi risultano spopolati. L’austerity imposta da Roma negli anni di una crisi globale (quella iniziata in America negli anni 2007-08) segna un gravissimo declino per la Regione. Le sue istituzioni sono mediamente ignorate o disprezzate dall’opinione pubblica.
Altro dramma, a partire dal 2011, è rappresentato dai continui e crescenti sbarchi di “migranti”, successivi al collasso del regime di Gheddafi in Libia. Sebbene la Sicilia sia quasi sempre solo terra di transito, rispetto a questo esodo/traffico, il costo dell’accoglienza è in parte lasciato dallo Stato agli enti locali, o gestito in grandi “centri di accoglienza” di dubbia sicurezza, come ad esempio il CARA di Mineo. Alcuni servizi essenziali, come la raccolta dei rifiuti, mai organizzata in senso moderno, sono al limite del collasso, così come l’assistenza ai disabili gravi e gravissimi, diventata uno scandalo nazionale.

In questo quadro convulso si svolgono le elezioni regionali del 2017, nelle quali la sinistra, che schiera questa volta il rettore dell’Università di Palermo, Micari, viene definitivamente marginalizzata, e in cui lo scontro aperto è invece tra il Movimento 5 Stelle, che schiera nuovamente Cancelleri come cinque anni prima, e il centro-destra, ricompattato su Musumeci, che ha la meglio. Ancora peggio la sinistra radicale che porta in ARS solo un deputato. Si segnala pure la presenza alle elezioni di un piccolo partito neoindipendentista, “Siciliani Liberi”, fondato nel 2016 dall’autore di queste pagine, con un proprio candidato presidente, l’Avv. Roberto La Rosa.

La XVII legislatura (2017-2022) è ancora troppo recente. Non vogliamo dare giudizi storici su eventi in corso dove peraltro i drammi della precedente legislatura non fanno che aggravarsi di giorno in giorno in una disarmante continuità; eventi che si incrociano fatalmente con il crollo della II Repubblica in Italia alle elezioni del 2018, e con la crisi sanitaria globale nel biennio 2020-22. Che ne sarà dunque della irrisolta Questione Siciliana?

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