ENI NIGERIA

July 15, 2024
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Nigeria CORRUZIONE– Il caso ENI/OPL 245

Lo scorso fine luglio, la Procura della Repubblica di Milano e il governo nigeriano hanno fatto appello alla sentenza di assoluzione con formula piena di tutti gli imputati della vicenda Opl 245 pronunciata dal settimo collegio del tribunale il 17 marzo 2021. Fra la fine del 2021 e l’inizio del 2022, quindi, si celebrerà un processo d’appello sempre a Milano. In attesa che anche i procedimenti in Nigeria e in Olanda seguano il loro corso, abbiamo provato a fare un po’ d’ordine sulla complessa vicenda di presunta corruzione che vedeva coinvolti l’Eni, il gigante petrolifero anglo-olandese Shell e loro top manager. Partendo dalla lontana genesi di questa storia, mettiamo in fila i fatti. è l’immenso blocco petrolifero acquisito nel 2011 dalle oil major Eni e Shell, una sorta di Eldorado offshore dell’oro nero.
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Che cosa è l’OPL245OPL245 è il più grande blocco petrolifero della Nigeria, situato nel Golfo di Guinea, a 150 chilometri dalla costa. Consta di due giacimenti petroliferi, Etan e Zabazaba, con riserve stimate e mai accertate fino a 9 miliardi di barili di petrolio. Secondo la multinazionale anglo-olandese Shell le riserve accertate di gas condensati associati ammontano a meno di un miliardo di barili equivalenti, ma l’esplorazione dei due campi non è stata ancora completata.

Una licenza contesa

La licenza è stata assegnata per la prima volta – senza alcuna gara – il 29 aprile 1998 dall’allora ministro del Petrolio nigeriano, Dan Etete, esponente della giunta militare del colonnello Sani Abacha, alla società locale Malabu Oil and Gas, costituita cinque giorni prima dell’aggiudicazione. Il governo nigeriano all’epoca aveva una politica per sostenere la crescita del settore petrolifero locale non lasciando tutte le operazioni solo alle grandi oil major straniere. Nella Malabu figuravano lo stesso ministro e uno dei figli del dittatore. Morto Abacha quello stesso anno, Etete cerca di coinvolgere la Shell come partner tecnico nell’operazione. Nel 2002, alla Malabu, però, viene ritirata la licenza dal governo Obasanjo e assegnata tramite una gara alla Shell, che nel 2003 versa un bonus di firma di 210 milioni di dollari e investe alcune centinaia di milioni di dollari nell’esplorazione del blocco.

OPL 245 viene visto come altamente strategico per spostare le operazioni fuori dal Delta del Niger segnato da conflitti sociali, rischi per la sicurezza e ricavi calanti dai pozzi in sfruttamento. Dopo numerosi casi legali intentati da Etete nelle corti nigeriane, nel 2006 il ministro della Giustizia Bayo Ojo riassegna il blocco alla Malabu. In risposta, nel 2007 la Shell muove un arbitrato internazionale contro la Nigeria all’International Centre for Settlement of Investment Disputes della Banca mondiale per fare pressioni con la richiesta di danni miliardari e cercare così di riottenere la licenza contesa. Sempre nel 2007, in Francia, Etete viene condannato per riciclaggio dei proventi della tangente dell’affare Bonny Island sempre in Nigeria, ma non molla e si mette alla ricerca di un nuovo compratore. Così contatta anche l’Eni.

Come entra in gioco l’Eni

I rapporti con il cane a sei zampe si stringono alla fine del 2009, quando Eni comunica il suo interesse a trattare. Nel febbraio 2010 la società stringe un accordo di esclusività e confidenzialità con il mediatore nigeriano Emeka Obi, che afferma di rappresentare la Malabu. Nel giugno 2010, non viene accettata una prima offerta per il 40% della licenza. Nel frattempo, il presidente Nigeriano Yar’Adua muore e il suo vice, Goodluck Jonathan, prende la guida del Paese. Il nuovo ministro del Petrolio, Diezani Madueke, conferma alla Malabu il controllo del 100% della licenza. A fine ottobre 2010, Eni, che si coordina con Shell, intavola una nuova offerta per l’intero blocco, che però fallisce. A quel punto nel negoziato subentra il nuovo ministro della Giustizia Adoke Bello, estromettendo i presunti intermediari che avevano agito nella trattativa diretta. Viene così elaborato uno schema tripartito con cui le società pagheranno il governo, che poi salderà la Malabu di Etete, mentre Shell ritirerà l’arbitrato internazionale. Alla fine del 2010. il figlio di Abacha si rifà vivo e muove una causa legale contro Etete che lo aveva estromesso da tempo. Nonostante le obiezioni mosse da alcune agenzie tecniche del governo, l’accordo viene raggiunto il 29 aprile 2011 sul prezzo di 1,3 miliardi di dollari, incluso il bonus di firma già pagato da Shell. Eni sborsa quasi un miliardo di dollari.  Shell la cifra rimanente.

Nel maggio 2021, il governo della Nigeria non ha autorizzato lo sfruttamento della licenza petrolifera OPL 245 a seguito della decadenza dei diritti e del permanere di processi penali in corso in Italia e in Nigeria per stabilire se l’intera operazione è stata macchiata da corruzione. Per la precisione, la licenza per il blocco è scaduta l’11 maggio 2021, dieci anni dopo che Eni e Shell l’avevano acquistata. La conferma è arrivata dalla stessa Eni, che ha risposto a una domanda posta da ReCommon in occasione dell’assemblea degli azionisti della multinazionale del 2021.

OPL 245 è stato registrato come uno degli asset iscritti al bilancio del 2020 della stessa Eni, ma la società riconosce che potrebbe essere necessario rivalutare la sua posizione il prossimo anno. La Shell ha svalutato il 50% dell’asset in suo possesso già nel suo bilancio del 2020. 

Nel 2018, l’Eni aveva richiesto all’esecutivo di Abuja di convertire i diritti esplorativi in una nuova licenza mineraria per iniziare l’estrazione del greggio. il presidente Muhammadu Buhari aveva respinto la richiesta e dichiarato che nessuna ulteriore corrispondenza sarebbe stata considerata fino a quando i procedimenti giudiziari penali e civili a Milano e Londra relativi all’affare del 2011 non fossero stati conclusi.

Una vicenda giudiziaria nata per caso

Subito dopo la firma dell’accordo nell’aprile 2011, il mediatore russo Ednan Agaev si rivolge a un tribunale di New York per richiedere il pagamento di 65 milioni di dollari di commissione dalla Malabu per l’intermediazione svolta. Il giudice lo rimanda alla Corte di Londra, ma la citazione viene pubblicata. Quindi anche il mediatore nigeriano Emeka Obi a Londra fa causa alla Malabu chiedendo ben 215 milioni di dollari, che un giudice congela sul conto fiduciario del governo nigeriano alla JPMorgan di Londra, dove Eni aveva versato 1,1 miliardi di dollari. Dopo due tentativi falliti di spostare i soldi pagati per la licenza in Svizzera e poi in Libano su un conto di una società diversa dalla Malabu, ma collegata al console italiano in Nigeria Gianfranco Falcioni, alla fine 801 milioni di dollari ancora liberi sono trasferiti alla Malabu in Nigeria.

Alla fine del 2012, si svolge la causa tra la Energy Venture Partners  di Obi e la Malabu di Etete e i verbali del processo vengono resi noti. Nel 2013, ReCommon e alcuni suoi partner inglesi presentano un esposto alla Procura di Milano, alla Metropolitan Police di Londra, al dipartimento di Giustizia e alla Security and Exchange Commission negli Usa. Da questi esposti partono varie indagini. Obi vince la causa in via definitiva e sorprendentemente gli vengono assegnati 110 milioni di dollari di commissione, denaro che sposta subito in Svizzera. Nel 2014, la Procura di Milano riesce a sequestrare la rimanenza sul conto di Londra e anche i soldi in Svizzera. Le indagini vanno avanti e l’FBI riesce a tracciare tutti gli spostamenti di denaro in dollari. Nel 2015, le autorità inglesi chiudono il caso, ma in Nigeria cambia il governo e così parte una valida cooperazione con l’Italia sul caso. Sono tracciati tutti gli spostamenti degli 801 milioni di dollari arrivati nel Paese: più di mezzo miliardo era finito alle società dell’imprenditore Aliyu Abubakar, vicino al governo Jonathan. Il resto ad Etete, che si lancia in spese smodate e salda debiti passati. Nel 2015, sempre da un esposto di ReCommon e dei suoi partner, nasce un’inchiesta su Shell e i suoi manager anche in Olanda. Nel febbraio del 2016, un raid congiunto della polizia olandese e della guardia di finanza italiana nella sede centrale della società all’Aja porta al sequestro di numerose prove. Allo stesso tempo il governo nigeriano muove un’azione civile di asset recovery contro la Malabu a Londra e riesce a farsi assegnare gli 85 milioni di dollari sequestrati. Nel 2017 Adoke Bello fa causa contro il nuovo ministro della giustizia per fermare l’indagine penale in Nigeria, che però continua. Nel dicembre del 2017 si materializza il rinvio a giudizio con l’accusa di corruzione internazionale da parte della Procura della Repubblica di Milano. Corruzione internazionale è una tipologia di reato diverso da corruzione “domestica”, in quanto emana dal dettato della Convenzione OCSE contro la corruzione di pubblici ufficiali stranieri, recepito nel nostro codice penale.

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Il processo

Nel dicembre 2017, il giudice Giuseppina Barbara del Tribunale di Milano ha firmato il decreto di rinvio a giudizio per Eni e Shell, per la loro responsabilità penale amministrativa, per 5 manager di Eni – Paolo Scaroni, ad di Eni ai tempi del reato contestato, Claudio Descalzi, oggi ad di Eni, allora numero due, Roberto Casula numero tre di Eni,  Vincenzo Armanna, project leader per l’OPL245, e Ciro Pagano, capo della controllata Nigeria NAE – 4 manager di Shell – Malcolm Brinded, allora numero due della società, Peter Robinson, manager per la Nigeria, John Copleston e Guy Colegate – l’ex ministro del petrolio della Nigeria Dan Etete, gli intermediari Luigi Bisignani, già condannato in Mani Pulite e per l’inchiesta P4, Gianfranco Falcioni, console onorario italiano a Port Harcourt in Nigeria, e Ednan Agaev, ex ambasciatore russo in Colombia.

Riguardo ai politici nigeriani in carica ai tempi del reato contestato e che avrebbero beneficiato dalla presunta tangente, secondo la Convenzione OCSE i presunti pubblici ufficiali corrotti non possono essere perseguiti in Italia, ma soltanto i presunti corruttori. Allo stesso tempo l’ex ministro della Giustizia Adobe Bello è a processo in Nigeria con accuse di corruzione, frode e riciclaggio, insieme ad alcuni manager delle controllate locali di Eni e Shell, l’ex ministro del Petrolio Dan Etete e l’intermediario Aliyu Abubakar, nella vulgata popolare noto come Mr. Corruption.

L’accusa

I pubblici ministeri Fabio de Pasquale e Sergio Spadaro hanno focalizzato la loro attenzione sulla mole poderosa di comunicazioni interne sequestrate nel corso di varie perquisizioni o rese disponibili dalle stesse società, nonché sulla documentazione acquisita dagli Usa, dal Regno Unito, dalla Svizzera e dalla Nigeria con numerose rogatorie internazionali. Tali documenti proverebbero, secondo la pubblica accusa, il concorso tra tutti gli imputati nel raggiungere un accordo corruttivo, suggellato con un incontro ad alto livello ad Abuja alla metà del novembre 2010 e poi attuato per l’acquisizione della licenza OPL245 a fronte del pagamento della presunta maxi-tangente di 1 miliardo e 100 milioni di dollari.

Le prove acquisite dimostrerebbero che i manager e le strutture interne preposte delle due società erano ben consapevoli che dietro la Malabu ci fosse Dan Etete, come segnalato anche dalla due diligence esterna, con il quale, poiché già condannato, era problematico procedere con un’acquisizione diretta. Inoltre, i pubblici ministeri hanno interpretato molte comunicazioni interne e rapporti di incontri come un chiaro segno che Obi ed Agaev erano rispettivamente intermediari di Eni e Shell, più che della Malabu di Etete. Secondo l’accusa, l’idea di uno schema che vede il governo Jonathan come intermediario nasce da Shell e quindi trova nel ministro Adoke Bello un perno della sua attuazione. Questi ad inizio del 2011 si riesce ad imporre sulle agenzie tecniche del governo che avevano sollevato la loro opposizione alle condizioni contrattuali estremamente favorevoli e senza precedenti concesse alle società straniere. Così come per l’accusa nei numerosi incontri negoziali i rappresentanti della Malabu in realtà erano i collegamenti strutturali con il governo (Aliyu Abubakar) e con le due società (Femi Akinmade e ABC Orjiako). La pubblica accusa è stata in grado di tracciare il flusso di denaro pagato fino in Nigeria e la conversione da dollari a naira nigeriani tramite diversi uffici di cambio. L’accusa ha mostrato come 10 milioni di dollari sono finiti a Bayo Ojo, che nel 2006 reintestò la licenza alla Malabu di Etete togliendola a Shell, e come Aliyu Abubakar avesse ripagato il mutuo concesso ad Adoke per comprare una casa a metà del suo valore reale tramite una società immobiliare dello stesso Abubakar. Inoltre la pubblica accusa ha portato prove che mostrano come circa 12 milioni di dollari gestiti da Aliyu Abubakar fossero stati trasferiti al senatore nigeriano John Obiorah.

In sintesi per la pubblica accusa il blocco petrolifero Opl245 valeva più del miliardo e cento milioni pagati, ma soprattutto era stato acquisito con condizioni contrattuali estremamente vantaggiose, criticate dalle stesse agenzie tecniche del governo nigeriano, ma non ascoltate dal vertice politico. E questo sarebbe stato il beneficio ottenuto dalle società con il pagamento della presunta tangente.

Per questo motivo è stato richiesto il massimo della pena per Dan Etete – 10 anni di reclusione – e 8 anni per Scaroni, Descalzi e Brinded e via via a scalare per gli altri manager ed intermediari, nonché la confisca di un miliardo e 100 milioni di dollari alle società ed il pagamento di una sanzione pari ad altrettanti un miliardo e 100 milioni.

La parte civile

In Nigeria dal 2015 è in carica l’amministrazione guidata dal Presidente Muhammadu Buhari, eletto con grande consenso popolare con una campagna elettorale centrata sulla lotta alla corruzione. Da allora il governo della Nigeria e le autorità inquirenti locali, a partire dalla procura nazionale anti-corruzione Economic and Financial Crime Commission, hanno collaborato con la Procura di Milano. All’inizio del processo, nel marzo 2018, la Nigeria in qualità di parte offesa ha richiesto con successo di essere riconosciuta come parte civile al procedimento e citato subito anche i responsabili civili di Eni e Shell. L’intervento della Nigeria nel procedimento di Milano costituisce un precedente importante per un Paese in via di sviluppo.

Nelle sue conclusioni, l’avvocato Lucio Lucia, in rappresentanza della Nigeria, aveva chiesto una provisionale di 1,1 miliardi di danni, riservandosi in caso di condanna definitiva di adire ad un giudice civile per la piena richiesta di danni, che secondo i consulenti tecnici intervenuti nel processo potrebbero ammontare a 3,5 miliardi di dollari. Dalle carte processuali emerge che la stessa Shell abbia dato una valutazione del blocco pari a 3,2 miliardi di dollari, seppure il prezzo pagato fosse stato di molto inferiore visti i rischi collegati al suo sfruttamento.

Allo stesso tempo la Nigeria ha mosso diverse cause civili di asset recovery per recuperare il miliardo e 100 milioni non finito nelle casse dello Stato. Prima è riuscita a farsi assegnare da un giudice inglese gli 85 milioni di dollari sequestrati dalla Procura di Milano a Londra. Quindi ha citato la banca JPMorgan per danni di 875 milioni di dollari. Il caso è stato accettato dall’Alta Corte di Londra e si svolgerà a fine 2021. Infine, sempre alla Corte di Londra, la richiesta di danni per un miliardo e cento milioni ad Eni e Shell non è stata accettata perché è già in corso il procedimento a Milano con una richiesta risarcitoria analoga.

La difesa

Per le difese la linea seguita dalla pubblica accusa è solamente un teorema che non trova riscontro nelle prove emerse in dibattimento. L’OPL245 era un asset conteso da più di un decennio e tutte le parti coinvolte si rendevano conto che era necessario trovare un accordo per il beneficio di tutti, al fine di cancellare tutte le pendenze giudiziarie e permetterne lo sfruttamento. Per Eni la due diligence interna sull’affare è stata molta attenta a valutare tutti i dubbi che circondavano la Malabu di Dan Etete. Inoltre le prime offerte erano state condizionate. Ma soprattutto, Obi era l’intermediario di Etete e anche se gli era stato dato molto credito, non aveva nulla a che fare con Eni.

Per la società si sono rispettate tutte le leggi nigeriane e la valutazione del blocco era corretta e considerava tutti i rischi collegati al suo sfruttamento. Inoltre gli accordi firmati non erano così capestro e il governo nigeriano avrebbe sia avuto la sua giusta parte, sia sarebbe potuto rientrare anche con una quota nella licenza, se voleva, mettendo così fine all’anomalia che escludeva la compagnia petrolifera nazionale dalla titolarità di una parte della licenza. Per Eni e Shell, non era loro responsabilità controllare il flusso dei pagamenti una volta che il governo nigeriano fosse stato saldato. In ogni caso Bayo Ojo era stato pagato da Etete per pregresse consulenze legali, mentre alla fine Adoke non aveva comprato la casa, così come non è certo che i fondi arrivati sul suo conto tramite Abubakar fossero parte della provvista dell’OPL245. Eni e Shell hanno prodotto delle revisioni esterne sulle accuse che hanno confermato il corretto operato dei manager delle due società. Molto dura, infine, l’Eni nei confronti del governo nigeriano, che secondo i vertici di San Donato si sarebbe reso responsabile della mancata conversione della licenza da esplorativa a mineraria, creando così un danno a Eni per gli investimenti già fatti – da cui discende l’arbitrato internazionale mosso nel 2020 quasi in risposta alla richiesta di danni della Nigeria al tribunale di Milano.

La sentenza di primo grado

Il 17 marzo 2021, i tredici imputati del processo Opl 245 e le due società alla sbarra, Eni e Shell, sono stati tutti assolti dall’accusa di corruzione internazionale perché “il fatto non sussiste” dal collegio giudicante presieduto dal giudice Marco Tremolada.

Per i giudici Marco Tremolada, Mauro Gallina e Alberto Carboni mancano “prove certe” dell’accordo corruttivo, non c’è prova neppure di una qualche consapevolezza dell’AD di Eni Claudio Descalzi, e manca anche la prova delle mazzette ai politici nigeriani.

“All’esito dell’istruttoria non è stato possibile ricostruire con certezza tutti i fatti oggetto dell’imputazione nonostante l’acquisizione di migliaia di documenti e l’esame incrociato di decine di testimoni e consulenti di parte – scrivono i giudici nelle loro motivazioni – Alcuni profili della vicenda restano in parte oscuri e possono essere oggetto di ricostruzioni probabilistiche e ipotetiche”.

Per quanto riguarda il numero uno di Eni “dalla lettura delle condotte specifiche manca il riferimento, anche solo nella forma attenuata della consapevolezza, alla condotta tipica della partecipazione agli accordi corruttivi che avrebbero determinato i pubblici ufficiali”.

I giudici poi, dopo essersi detti d’accordo con la procura che il “denaro non tracciabile, movimentato” sia “una prova indiziaria del carattere genericamente illecito dei pagamenti derivati dai proventi” del blocco petrolifero, concludono però che “non è invece condivisibile l’assunto conclusivo che gran parte di tale somma in contanti, se non tutta, sia finita nella disponibilità dei pubblici ufficiali nigeriani che hanno reso possibile gli accordi illeciti”.

Le motivazioni dedicano un ampio capitolo alla posizione di Vincenzo Armanna, ex manager Eni imputato ma anche grande accusatore nel processo, oltre che l’unico imputato a sostenere un interrogatorio in aula insieme a Ednan Agaev, uno dei mediatori della transazione. Armanna in fase di indagini preliminari aveva parzialmente ritrattato le sue accuse per poi riproporle invece in dibattimento, sostenendo di essere stato oggetto di pressioni da parte di funzionari Eni per il precedente cambio di versione. “Il comportamento ondivago di Vincenzo Armanna durante le indagini non integra un indizio a carico di Descalzi, o per lo meno un indizio grave e univoco”.

Per quel che riguarda poi Shell e uno dei quattro imputati del gruppo, Michael Brinded, i giudici scrivono che non c’è prova che fosse a conoscenza “della necessità di pagare tangenti” emersa, secondo l’accusa, da una serie di incontri con il presidente della Nigeria del 2007, di cui si trova traccia in una lettera. Per i giudici l’espressione “spese per 500 milioni” non contiene “alcun riferimento specifico” alla necessità di dover corrompere i pubblici ufficiali.

Infine, secondo i giudici, l’ex ministro nigeriano del Petrolio Dan Etete, che dietro la società Malabu cedette i diritti di Opl-245, non avrebbe dovuto entrare in questo processo per un “difetto di giurisdizione” essendo gli elementi emersi “relativi a fatti commessi in Nigeria, che esorbitano dalla giurisdizione di questo o altro tribunale italiano”.

Altri due imputati, gli intermediari Gianluca Di Nardo ed Emeka Obi, coinvolti nell’affare Opl245, avevano scelto il rito abbreviato nel corso dell’udienza preliminare del 2017 ed erano stati condannati in primo grado dal Gip Giuseppina Barbara a 4 anni di reclusione ciascuno e alla confisca di 112 milioni di dollari, già sequestrati in Svizzera su richiesta della Procura di Milano. In appello sono stati entrambi assolti perché il fatto non sussiste e le confische dei fondi in Svizzera sono state revocate.

Gli altri procedimenti in Nigeria e Olanda

In Nigeria sono a processo con accuse di corruzione, frode e riciclaggio i politici nigeriani allora al potere coinvolti nell’affare, in primis l’ex ministro della giustizia Adoke Bello, arrestato ed estradato da Dubai all’inizio del 2020. I tre tronconi processuali nigeriani coinvolgono anche manager locali delle due aziende e mediatori nigeriani, nonché Dan Etete.

In Olanda è ancora in corso un’indagine penale sul caso. Le accuse a Shell vanno ben oltre la corruzione internazionale. Una decisione sul rinvio a giudizio potrebbe arrivare entro l’anno.

A fine 2021 inizierà anche alla Corte di Londra il processo civile che vede la Nigeria chiedere danni per 800 milioni di dollari alla banca JPMorgan che ha veicolato i pagamenti della presunta tangente.

Infine a fine luglio 2021 i pubblici ministeri De Pasquale e Spadaro hanno presentato l’atto d’appello, il cui processo potrebbe svolgersi nel corso del prossimo anno. Allo stesso tempo nei prossimi mesi potrebbe arrivare ad una richiesta di rinvio a giudizio l’indagine, sempre condotta dalla Procura di Milano, sul presunto finto complotto architettato da legali esterni di Eni ed alcuni manager interni per depistare l’indagine sull’Opl245 ed inquinare lo stesso processo. Anche il governo della Nigeria ha presentato appello alla sentenza di primo grado.

Eni-Nigeria, la Cassazione mette la parola fine al processo

Dopo le assoluzioni dei vertici e l’esclusione della responsabilità delle società Eni e della Royal Dutch Shell plc, la Suprema corte chiude il caso con il passo indietro della Repubblica federale africana

 

La Cassazione, con la sentenza n. 22920, ha messo la parola fine alla vicenda giudiziaria Eni-Nigeria nata dall’accusa della procura di Milano di presunta corruzione internazionale per la tangente da 1.092 miliardi relativa ad una concessione in Nigeria del giacimento petrolifero Opl 245. Un caso che aveva coinvolto 13 imputati, tra i quali l’amministratore di Eni Claudio Descalzi e il suo predecessore Paolo Scaroni, assolti sia in primo grado, con la formula “perchè il fatto non sussiste” sia dalla Corte d’Appello, che aveva avallato la sentenza di primo grado escludendo anche la responsabilità per illecito amministrativo, prevista dal Dlgs 231/2001, di Eni e Royal Dutch Shell.

Un verdetto, quello della Corte territoriale, contro il quale aveva fatto ricorso la Nigeria, costituta in sede penale ai soli fini civili con la richiesta di un risarcimento di…

Due deputate Usa: “Riaprite il processo a Eni e Shell per corruzione in Nigeria”

AL DIPARTIMENTO DELLA GIUSTIZIA – La richiesta cita un rapporto dell’Ocse sull’Italia

Riaprite il processo a Eni e Shell per corruzione internazionale in Nigeria. Lo chiedono al Procuratore generale degli Stati Uniti, Merrick Garland, due deputate Usa, Maxine Waters e Joyce Beatty, democratiche, rispettivamente capogruppo della Commissione finanze e della Sottocommissione per la sicurezza nazionale, la finanza illecita e le istituzioni finanziarie internazionali. Hanno inviato una lettera […]

 

CORRUZIONE INTERNAZIONALE: L’OCSE CHIEDE ALL’ITALIA UN PASSO IN PIÙ

21 ottobre 2022

Redazione

Come si dimostra la corruzione internazionale? È diventato praticamente quasi impossibile.  Questa è un amara constatazione a seguito del rapporto OCSE pubblicato lo scorso 13 ottobre.(1)

L’OCSE è l’Organizzazione a cui aderiscono i Paesi Sviluppati del mondo e conduce, fra l’altro, studi economici per i Paesi membri. Oggi aderiscono all’OCSE 38 Paesi, Italia compresa.

Il report OCSE sulla lotta alla corruzione internazionale in Italia – pubblicato in questi giorni – dipinge un quadro in chiaro-scuro e, soprattutto, è molto critico sul modo in cui i giudici italiani considerano le prove nei procedimenti penali internazionali.(2) Tuttavia, si riconoscono e si apprezzano gli sforzi italiani e gli adeguamenti legislativi per combattere la corruzione internazionale ma si evidenzia anche come tanti, tantissimi procedimenti vengano archiviati o gli imputati siano prosciolti.

Fra gli esempi di corruzione all’estero riportati nell’Allegato 1 – e già definitivi – viene esaminato il caso del giacimento petrolifero OPL 245 in Nigeria che ha visto il coinvolgimento di ENI e SHELL.

 

L’Organizzazione per la cooperazione e lo sviluppo economico (OCSE) è molto critica nei confronti dei metodi usati dai giudici Italiani nel processo sulla corruzione contro le compagnie petrolifere Shell ed ENI in merito all’acquisto di un vasto giacimento petrolifero in Nigeria. L’OCSE è “estremamente preoccupata” per come i giudici hanno gestito le prove a sostegno nel caso di corruzione, che si è poi concluso l’anno scorso con la piena assoluzione di tutti gli imputati.

L’OCSE è un Think Tank di 38 Paesi che, una volta l’anno, valuta se i paesi membri rispettano il Trattato OCSE sull’Anticorruzione. L’Italia non esce indenne dalla relazione appena pubblicata. Fra i 44 Paesi del Gruppo di Lavoro sulla Corruzione, l’Italia con 59 mln di abitanti è 6a in ordine di PIL globale e, a livello commerciale, è 8a in termini di esportazione di prodotti e servizi – nel 2019 -.

Le cause legali sui casi di corruzione in un paese straniero si basano fortemente sulle prove raccolte a sostegno. Nel caso dei giacimenti petroliferi nigeriani, l’OCSE ha rilevato un “modello inquietante“.

  1. Ogni singola prova raccolta a sostegno della corruzione è stata respinta dai giudici ogni volta che era disponibile una spiegazione alternativa. Così, secondo l’OCSE, le prove non sono state esaminate nel loro insieme ma separatamente.
  2. Inoltre, è stata richiesta la prova onerosa dell’accordo corruttivo e la prova della violazione della legge straniera che aggravano purtroppo il problema. (Per affrontare questi problemi, l’Italia dovrebbe introdurre la formazione e le modifiche legislative ove raccomandato).
  3. Mettendo un livello – di prove – così elevato sarà ben difficile anche in futuro riuscire ad avere successo nei casi di corruzione con paesi esteri; pertanto, l’Italia, di fatto, si trova a violare i trattati OCSE.

Il caso di corruzione preso in esame ruota attorno al gigantesco giacimento petrolifero OPL 245 al largo delle coste della Nigeria che, nel 2011, Shell, – compagnia petrolifera a quel tempo anglo-olandese – e ENI cercarono di accaparrarsi. Il procuratore italiano sospettava che le due società avessero pagato circa Euro 1 miliardo di tangenti, per impossessarsi, in seguito, dei giacimenti petroliferi ad un importo estremamente ribassato. I soldi erano transitati su un conto del governo nigeriano, per poi scomparire quasi totalmente nelle tasche di politici e privati locali. In parallelo, un procedimento penale contro la Shell era stato aperto nei Paesi Bassi, dove gli investigatori del FIOD (Fiscal Information and Investigation Service) avevano fatto irruzione nella sede centrale della Shell a L’Aia nel 2016. La Shell nel frattempo è diventata completamente di proprietà britannica.

Un giudice italiano nel 2018 aveva condannato due intermediari a diversi anni di carcere per il loro ruolo nell’affare dei giacimenti petroliferi. Ma nel 2021, altri giudici italiani avevano completamente assolto le compagnie petrolifere. Secondo i giudici, ENI e Shell non erano responsabili di quello che era successo al denaro dopo che era stato depositato sul conto del governo nigeriano. Poco dopo, anche l’indagine penale olandese fu interrotta.

Anche a questo proposito l’OCSE rimane piuttosto criticaDalla corrispondenza interna delle due compagnie petrolifere risulta evidente che queste erano al corrente che il denaro costituisse una tangente, afferma il rapporto. L’OCSE denuncia apertamente il fatto che i giudici non ne abbiano tenuto conto nella loro sentenza.

L’Italia non esce indenne dal rapporto OCSE, ma a onor del vero, neppure l’Olanda ne è uscita bene l’anno scorso(3). Nella valutazione olandese del 2021, gli investigatori del Gruppo di Lavoro OCSE hanno fortemente criticato il trattamento di un’informatrice (whistleblower) nigeriana. La donna lavorava come senior policy advisor all’Ambasciata olandese ed aveva segnalato che l’Ambasciatore olandese aveva fatto trapelare alla Shell documenti riservati relativi all’indagine penale sui giacimenti petroliferi OPL 245, ma dopo la segnalazione, era stata licenziata dal Ministero degli Esteri olandese. In questo caso, la corte olandese ha dato ragione alla whistleblower e condannato il Ministero a risarcirla con  2 anni di stipendio.

Questo rapporto sull’Italia è stato realizzato dal Gruppo di Lavoro sulla Corruzione (OECD Working Group on Bribery)(4) che valuta e prepara le raccomandazioni in merito all’attuazione nel Paese della Convenzione OCSE sulla lotta alla corruzione di pubblici ufficiali stranieri nelle transazioni economiche internazionali. Il rapporto riporta i punti di miglioramento ed i risultati positivi. I temi affrontati nel report riguardano: a) l’accertamento del reato di corruzione estera,  b) l’ambito di applicazione della corruzione straniera e dei reati connessi, c) la responsabilità delle imprese, d) la cooperazione internazionale.

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