Donne Sumere

December 27, 2023
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RUOLO DELLA DONNA Dai Sumeri In poi

Donne e diritti.

 Per poter inquadrare e rendere comprensibili fasi particolari della vita delle donne, come la avanzata maturità e la vecchiaia, è necessario chiarire preliminarmente alcuni tratti salienti della condizione femminile nel mondo mesopotamico. La nostra documentazione copre un periodo (dal 3000 al 300 circa a.C.) ed un’area geografica (grosso modo identificabile con l’Iraq e la Siria settentrionale) che, pur all’interno di una sostanziale e rimarchevole omogeneità culturale, abbracciano nella loro ampiezza diacronica ed areale situazioni assai differenziate,

E’ pressochè impossibile  rendere un unico discorso generalizzabile. Al contempo, però, è possibile individuare chiaramente delle costanti fondamentali.

La particolarità della posizione della donna e la sua importanza nella società mesopotamica possono essere correttamente comprese, solo partendo dall’assunto preliminare che la sua legittimazione sociale passa imprescindibilmente attraverso la figura maschile di riferimento.

Non siamo troppo lontani dal modello che, radicato nella Politica di Aristotele, impera per secoli nelle società occidentali, e il cui scardinamento, nonostante episodiche anticipazioni, inizia di fatto soltanto con la rivoluzione francese; modello, che vede il ruolo fondamentale della famiglia «come microcosmo gerarchico, entro il quale alla posizione eminente del pater corrispondono le condizioni di altri soggetti (la donna, il servo, il figlio), diverse fra loro ma egualmente subordinate»; per cui, «cittadino è il pater familias, ed è per suo tramite che avviene l’inclusione nella civitas dei soggetti ad esso legati nel microcosmo gerarchico della famiglia». 

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In Mesopotamia, quindi, la grande maggioranza delle donne conduce la sua vita sotto l’“ombrello” di una protezione maschile soft, passando dalla tutela del padre a quella del marito senza soluzione di continuità.

Esistono inoltre forti disparità fra uomo e donna che, però, tendono a variare a seconda dei periodi e delle diverse regioni. Al pari delle altre figure sottostanti alla giurisdizione del capofamiglia (servi e bambini), la donna è spesso concepita come “prolungamento” della sua persona ed è, quindi, perseguibile in sua vece nella giustizia umana, come in quella divina o nella magia.

All’interno della famiglia, quindi, la donna è gerarchicamente sottoposta al pater familias che, in casi di estrema necessità e indigenza, può arrivare a vendere moglie e figli; anche se, differentemente dal diritto romano, in nessun caso egli ha diritto di vita e di morte su di loro.

Le fonti cuneiformi, tuttavia, offrono un quadro abbastanza contrastante dello status delle donne nella società mesopotamica, dove l’importanza da esse rivestita, pur all’interno di una struttura gerarchica patriarcale, appare testimoniata dalle norme che regolano gli scambi di beni per la stipula dei contatti matrimoniali.

Diversamente da altre società, dove è in primo luogo la famiglia della donna a dover corrispondere una dote per la figlia, a cui il marito può aggiungere una controdote proporzionale, nella società mesopotamica l’impegno matrimoniale è siglato dal versamento della teræatum da parte del futuro marito: una sorta di “prezzo nuziale” fissato dalle parti, destinato a rifondere la famiglia della sposa della sua perdita.

La sposa riceve a sua volta dalla propria famiglia una dote, ıikrum, suo patrimonio inalienabile, fondamentale in caso di divorzio o vedovanza. Appare chiaro, quindi, che in Mesopotamia, a differenza di quanto avviene in altre società, la donna costituisce un soggetto positivo piuttosto che un peso per la famiglia di origine. Il suo valore sta innanzi tutto nell’essere strumento indispensabile della continuazione familiare e patrimoniale; e tuttavia, dati gli importanti aspetti sociali veicolati dall’istituzione matrimoniale nella società mesopotamica, ella costituisce anche il tramite privilegiato di relazioni e alleanze.

Ciò risulta particolarmente evidente nella diffusa pratica dei matrimoni interdinastici; ma non meno importante è la funzione del matrimonio nell’organizzazione del tessuto delle relazioni sociali interfamiliari negli altri strati della popolazione. Il ruolo di madre conferisce alla donna una posizione molto importante all’interno della famiglia, non assolutamente limitata alla sua, pur fondamentale, funzione procreativa: ella è responsabile della crescita e dell’educazione dei figli, come della gestione, spesso anche amministrativa, del focolare domestico.

Molte delle diversità di trattamento della donna nelle leggi inerenti al diritto familiare sono spiegabili con quello che costituisce l’obiettivo primario della società, e quindi del diritto: la garanzia della continuazione e della tutela della famiglia e della discendenza interna, insieme alla conservazione del patrimonio in ambito familiare.

Così, soltanto l’adulterio femminile, in quanto associato ad una possibilità di procreazione al fuori della linea di discendenza paterna, è perseguito dai codici e punito realmente con la morte di entrambi i colpevoli.

Inoltre, in caso di sterilità della prima moglie, sono previsti per il marito divorzio o bigamia (altrimenti abbastanza rara). Fatte salve le priorità socio-familiari, i codici documentano però anche il riconoscimento di alcuni diritti della donna, e non esclusivamente nella sua funzione di madre.

Significativa in questo senso è la regolamentazione del “divorzio”, in cui non mancano gli aspetti di tutela della donna, e che non compromette di per sé l’onorabilità di quest’ultima, quando non sia dovuto a cause per lei disonorevoli. Il marito, poi, ha sempre l’obbligo di rifondere alla moglie abbandonata la sua dote, e spesso altri beni, ad esempio in caso di sterilità (CH §138-39). Se ci sono figli a carico della madre, il marito può essere obbligato a lasciare alla moglie la totalità del suo patrimonio (LE §59, CH §137).

Nel caso, invece, che la moglie si ammali di una malattia grave, il marito potrà prendere una seconda moglie, ma non divorziare (CL §28, CH §148). Infine, fatto estremamente importante, anche la donna ha il diritto di lasciare il marito (CH §142); e che non si tratti soltanto di un diritto teorico sancito dai codici, è provato dalla presenza, in alcuni contratti matrimoniali, di clausole volte ad ostacolarlo.

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Alcuni contratti fanno anche esplicito riferimento al rispetto reciproco fra i due sposi: «in aperta campagna e in città si rispetteranno l’un l’altro». All’interno della famiglia i figli hanno il dovere di rispettare sia il padre che la madre, entrambi chiamati in causa in decisioni familiari importanti; come il contratto matrimoniale delle figlie, di cui, in assenza del padre, anche la sola madre può essere la contraente. In certi ambiti, come vedremo, alla morte del padre la madre può essere investita del ruolo paterno.

Non esistono forme di reclusione per le donne (salvo il caso di particolari categorie di sacerdotesse o concubine reali), che godono, quindi, di una certa libertà di movimento anche fuori della casa o del palazzo.

Pur dipendendo dal padre o dal marito, la donna, specialmente nella Babilonia, non si trova sotto perpetua tutela: ella, infatti, può disporre di poteri propri per acquistare o cedere terreni, beni mobili e immobili, e talvolta anche impiantare e gestire in proprio attività artigianali e commerciali. Il discrimine, naturalmente, è qui di tipo sociale: l’autonomia e il potere della donna crescono in ma

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Spesso si tratta di sanzioni pecuniarie equivalenti per i due sposi; in alcuni casi, invece, per la donna che lasci il marito è previsto –deterrente significativo– l’annegamento.

Così, ad esempio, negli “harem” dei sovrani assiri, regine madri, spose reali, principesse, concubine ed altro personale femminile, potevano uscire ed anche viaggiare. in maniera direttamente proporzionale al livello sociale di appartenenza. In particolare, alcune categorie di sacerdotesse e le donne appartenenti alla famiglia reale possono godere di autonomia e prestigio considerevoli.

Fra le migliaia di testi epistolari degli Archivi Reali di Mari, importante centro della Siria nord-orientale, databili al XVIII sec. a.C., un lotto considerevole è costituito dalla corrispondenza femminile: quasi duecento lettere, dal tono per lo più discorsivo e scarsamente formale, che hanno come destinatari o mittenti dame della corte (fra cui la regina, la regina madre, le figlie del sovrano), il sovrano o, più raramente, altri funzionari.

Questa affascinante documentazione, proprio per il suo carattere quotidiano e lontano dai paludamenti di una rigida etichetta di corte, ci permette inaspettatamente di insinuarci nell’intimità della vita di persone vissute quasi quattromila anni fa.

Il quadro che ne emerge mostra un potere effettivo nelle mani di queste donne, prime fra tutte la regina, alla quale in assenza del marito spetta il controllo e la gestione del palazzo, e la regina madre. Un quadro non isolato,

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già ricostruibile ad esempio nel XXIV sec. a.C. per il palazzo di Ebla, nella Siria nordoccidentale, dove la “casa della regina” (la bayt maliktim), con la sua popolazione di dame della corte –che include fra l’altro le nutrici della regina e di altre dame– e le varie categorie di personale palatino, non può non richiamare alla memoria, e non soltanto nel nome,

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Dalle lettere emerge quindi chiaramente che queste donne, pur senza alcun riconoscimento ufficiale, potevano svolgere anche un ruolo politico. L’obiettivo dei diffusi matrimoni interdinastici, ad esempio, appare non soltanto quello di stabilire pur importanti alleanze fra famiglie reali o nobili, destinate ad essere cementate da una discendenza comune, ma anche quello di approntare uno strumento di controllo su corti e territori vicini:

la figlia del re non si limita, quindi, ad un ruolo passivo di sposa-pegno, ma assolve, nell’ombra, ad una precisa funzione politica come emissario paterno. Significativa è a questo proposito, anche nei toni usati –di indubbio rispetto, ma non di succube sottomissione–, una lettera di Kirû, figlia del re di Mari, Zimri-Lim.

Data in sposa dal padre al signorotto di una provincia vicina, ella ragguaglia nelle sue lettere il re, con regolarità, sulla situazione politica del paese in cui vive: […]

È un fatto assodato che, quando eravamo alla corte di [?], io ti ho parlato così: «Tu te ne vai, e non hai sistemato in alcun modo la situazione del Paese; dopo la tua partenza il Paese diverrà ostile». Ecco quel che ho detto a mio padre, ma tu non mi hai ascoltata! […] Ora, anche se non sono che una donna, che mio padre, il mio Signore, faccia attenzione a quanto dico: sono sempre parole degli dei quelle che invio a mio padre.

Vieni nel Paese-Alto e fai tutto ciò che gli dei ti mostreranno! L’impiego politico delle principesse, però, non si limita ai matrimoni interdinastici: Enheduanna, figlia del grande Sargon di Akkad, donna di grande cultura e sacerdotessa del dio Sin, ad Ur, intorno al 2300 a.C., è solo la più famosa fra le numerose principesse insediate dai re, loro padri, come longa manus del proprio potere, in importantissime cariche sacerdotali.

E numerose, come vedremo, sono le figure di regine e, soprattutto, regine madri, che giungono ad esercitare un grande potere –come la notissima Semiramide–, sempre, però, all’ombra di una figura reale maschile. In vari periodi e ambiti della cultura mesopotamica, dunque, la donna può raggiungere una certa autonomia e svolgere ruoli importanti anche sul piano politico, ma sempre sotto la cappa di una giurisdizione maschile.

Non tutte le donne, tuttavia, sono soggette a questa giurisdizione. Alcune categorie –come le ostesse, le nutrici, le prostitute, ma anche le diverse e specifiche categorie sacerdotali– possono godere di uno status indipendente, legato alla professione o alla funzione svolte. Esse beneficiano di una certa emancipazione che, però, con l’eccezione delle sacerdotesse, ha generalmente per corollario la loro esclusione dalla comunità delle donne rispettabili. La rispettabilità della donna passa quasi inevitabilmente attraverso la tutela maschile. La complessità di questa situazione è ben esplicitata nell’art. 40 delle Leggi Medio Assire che regolamenta l’uso del velo, ottima sintesi

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Jean-Marie Durand, Documents épistolaires du palais de Mari, III, Paris, les Éditions du Cerf, 2000, p. 434 ss. 121 della condizione femminile e al tempo stesso esempio della concezione particolare del diritto nelle civiltà antiche. Il velo esprime simbolicamente l’appartenenza della donna sposata ad una certa famiglia: la protezione, la copertura di rispettabilità fornita dal pater familias, con i diritti e i doveri che ne derivano. In LMA A §40, vengono enumerate le categorie tenute a comparire velate in pubblico: spose di qualunque rango, figlie di uomini liberi, concubine al seguito della padrona.

Al contrario, sacerdotesse-qadiıtu nubili, prostitute e schiave devono essere a capo scoperto. Il rifiuto deliberato di coprirsi in pubblico non risulta costituire da solo un comportamento penalmente reprensibile: sottraendosi ad un dovere richiesto dal suo status, la donna si limita a contravvenire ad una convenzione fissata dalla morale sociale. Di contro, la serva o la prostituta che tentano di accedere ad una dignità loro preclusa minacciano l’ordine pubblico, rendendosi colpevoli e punibili con pene che mirano alla loro umiliazione.

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Indossare il velo, quindi, è ad un tempo un dovere imposto alle donne onorabili e un privilegio riconosciuto loro. Un privilegio ancora esercitato ai nostri giorninelle aree medio arabiche.

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Prima di essere membro della società la donna è un soggetto sottomesso al potere paterno o maritale. Fuori di questo contesto è abbassata alla condizione di serva o cortigiana e non può fregiarsi di attributi riservati alle donne rispettabili. E lo status familiare determina addirittura i principi giuridici a lei applicabili: non esiste uno status astrattamente definito dall’identità di genere, non si hanno soggetti uguali in quanto appartenenti ad un medesimo genere.

Ma, oltre alle categorie suddette, anche la donna sposata può trovarsi temporaneamente o definitivamente fuori dalla tutela maschile, se divorziata o vedova, senza per questo perdere la sua rispettabilità. E, in particolare per la vedova, questo status, che in molti casi si rivela senz’altro foriero di una situazione di privilegio, si trova per lo più a coincidere con l’età che costituisce l’oggetto della nostra indagine. L’avanzata maturità All’interno del continuum del processo di invecchiamento che segue la piena maturità femminile, ci pare qui opportuno distinguere due momenti, che potremmo far coincidere grosso modo con un’avanzata maturità e con la vera e propria vecchiaia, caratterizzata da una progressiva, ma già marcata, perdita di capacità lavorativa.

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Guillaume Cardascia, Les lois assyriennes, Paris, les Éditions du Cerf, 1969, pp. 204-205. 122 È quasi impossibile enucleare all’interno della documentazione dati che riguardino una “terza età” della donna in ambito mesopotamico, pur intendendo per terza età, al di là di qualsiasi altra implicazione socio-culturale, semplicemente il periodo della menopausa, che segue la perdita della capacità procreativa da parte della donna in una fase di ancora piena capacità lavorativa.

In primo luogo, ancor più del passaggio alla pubertà, che costituisce l’altro fondamentale discrimine nella vita di una donna in qualsiasi società naturale, il passaggio alla menopausa sfugge quasi totalmente, come prevedibile, al tipo di documentazione in nostro possesso. Inoltre, non si hanno in generale indicazioni precise sulle diverse età.

Mancano dati certi su quale fosse l’età media, ma probabilmente la vecchiaia era problema di quei pochi che, fra coloro che erano riusciti a varcare il primo difficile traguardo dei 3,14 e poi dei 10 anni di età, arrivavano a superare i 40 anni; anche se la ricerca antropologica ha mostrato che, considerate le basse percentuali di adulti, le persone che raggiungono i 90 e talvolta più anni non costituiscono nel mondo del Vicino Oriente Antico una rarità.

La stessa vecchiaia, per quanto di facile connotazione, non è quasi mai inquadrabile con precisione dal punto di vista temporale; tanto che pare preferibile parlare di invecchiamento, piuttosto che di vecchiaia come fase definita. La terminologia riflette le varie, poche, fasi della vita di una donna, senza che però esistano dati per ancorarle ad età precise: la bambina diviene una ragazza in età da marito,15 poi una donna e infine un’anziana, per lo più senza ulteriori scansioni all’interno del processo di crescita e invecchiamento.

Secondo Martha Roth,16 il modello matrimoniale più ampiamente diffuso nei vari periodi della società mesopotamica è quello di tipo “mediterraneo”: l’uomo si sposa mediamente fra i 25 e i 30 anni con una donna che ha generalmente 10 anni di meno.17 Vedremo in 14 La percentuale di popolazione che supera questa soglia può oscillare, nei vari periodi della storia mesopotamica, ma non supera mai il 30/35 %.

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Tradizionalmente, nelle società pre-moderne, l’età matrimoniale della donna tende a coincidere con la pubertà. Una delle motivazioni di questa precocità è data dalla necessità di favorire il massimo incremento del processo riproduttivo, così da contrastare il più possibile l’altissimo tasso di mortalità esistente.

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Martha Roth, Age at marriage and the household. A study on Neo-Babylonian and NeoAssyrian forms, «Comparative Studies in Society and History», 29, 1987, pp. 715-47. 17 Per quanto riguarda il mondo classico, questo modello è stato recentemente messo in discussione, limitatamente alla società romana, da Arnold A. Lelis, William A. Percy, Beert C. Verstraete (The age of marriage in ancient Rome, Lewiston, Edwin Mellen Press, 2003), i quali sostengono la necessità di sostituire alle età matri123 seguito le naturali conseguenze di questo nelle fasi più tarde della vita di uomini e donne. Fra il matrimonio (o la consacrazione sacerdotale) e la morte di una donna, i testi raramente forniscono dati che permettano di stabilirne l’età. Sempre, comunque, che sia riuscita ad arrivarci, la donna, sia essa laica o sacerdotessa, può intraprendere il suo processo di invecchiamento come nubile, moglie, divorziata o vedova.

Pochissimo sappiamo delle donne nubili, che verosimilmente restano però sotto l’autorità paterna o di qualche fratello, con la probabile esclusione delle sacerdotesse.

Né è possibile ipotizzare quanto fosse effettivamente diffusa la pratica del divorzio. Tuttavia, è probabile che la percentuale di donne divorziate che entravano in questa fase della vita ancora come tali non fosse alta. Nella media, le divorziate appartengono verosimilmente ad una fascia di età più giovane, una delle cause più frequenti di divorzio essendo la sterilità della donna.

Ed è generalmente previsto che la donna divorziata possa risposarsi, anche dopo aver allevato i figli del suo primo matrimonio.18 Invece, data anche la struttura del modello matrimoniale “mediterraneo”, quello di vedova parrebbe essere uno status abbastanza frequente per la donna mesopotamica.

Ciò sembra confermato dall’attenzione che il diritto pone nel garantire alla donna sposata un patrimonio che possa sostenerla nella sua vedovanza, dai numerosi testamenti in cui il marito tutela in primo luogo i diritti della moglie, e dai numerosi contratti di adozione da parte di donne. Ed è verosimile che molte donne affrontassero da vedove questa fase della loro vita. La vedova, quindi, costituisce forse la figura più rappresentativa della fase di avanzata maturità della donna nell’antica Mesopotamia.

Ciò che rende questa figura particolarmente interessante è, come abbiamo visto, il suo godere di uno status particolare.

Le vedove, come le divorziate, paiono avere uno status autonomo: «quando (mia moglie) sarà vedova con le vedove», che, in certi casi, conferisce loro moniali generalmente proposte (28 anni per gli uomini e 18 per le donne. Con relativo potere e indipendenza;

20 che dispongano di un certo benessere economico che eviti loro l’indigenza, spesso conseguente alla perdita del marito negli strati più bassi della popolazione. In molte delle culture del Vicino Oriente Antico è diffuso lo stereotipo che vede nella vedova, come nell’orfano, un soggetto fragile e bisognoso di aiuto, specialmente quando ella abbia dei figli ancora piccoli. Come, in Israele, la vedova, prototipo di pietà e spiritualità, è prediletta dal Signore, così, in Mesopotamia, è amata dagli dei.

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In particolare, è la dea Nanshe colei che conosce la vedova e veglia su di lei: «conosce l’orfana, conosce la vedova», «sulla vedova, colei che non ha sposo, Nanshe alza la buona casa come tetto».

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Ma anche il dio Marduk «aiuta l’orfana, la vedova, l’angosciato, l’insonne».

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Non ci pare sufficientemente suffragata dall’esame dei testi. Tuttavia, proprio questa marginalità e, forse ancora di più, la sua indipendenza da un diretto controllo maschile possono farle attribuire alcune connotazioni inquietanti. Come quelle di potenziale seduttrice e incantatrice. La vedova può avere poteri divinatori o magici, o avere caratteri sovversivi, come le vedove profetesse assire.

Spesso, però, le vedove sono apprezzate per la loro saggezza, frutto dell’esperienza, e per la castità. In diversi casi si tratta addirittura di donne pie, ed emblematica in tal senso è la già menzionata figura di Adad-Guppi, madre di Nabonedo, vissuta fino all’età di 104 anni e grande devota del dio Sin.

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Alcune di loro, alla morte del marito scelgono di entrare in monasteri o conventi. Talvolta, in realtà, la scelta è loro “suggerita” da chi ha interesse ad emarginarle. Come nel caso di Gabi atum, una delle due mogli principali del re assiro Yahdun-Lîm che, rimasta vedova, fu consacrata sacerdotessa dalla suocera, Akatiya, moglie principale del potente Samsî-Addu.

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È assai riduttivo liquidare l’immagine della vedova bisognosa come un ingiustificato cliché popolare,

27 anche se, come vedremo, accanto a questa situazione esiste un’abbondante casistica di vedove senza alcun problema di ordine economico, che possono gestire la loro maggiore indipendenza e spesso incrementare significativamente il loro potere. Il grosso discrimine fra questi due aspetti, ugualmente esistenti, è dato dal ceto sociale: la distinzione principale, infatti, è fra donne che possono, o non possono, contare su risorse economiche patrimoniali.

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Difficile, e talvolta drammatica, è infatti la vita della vedova che non possiede beni. Se dote e controdote non esistono o sono troppo esigue per poter garantire il suo sostentamento, l’unica risorsa è la possibilità di un lavoro. Se fa parte del personale palatino o templare, come semplice operaia o, anche, come cantante, musicista, danzatrice, può mantenere se stessa ed eventuali figli.

Se è di condizione libera, può sempre risposarsi; oppure, può tornare alla famiglia paterna, sempre che questa sia disposta ad accoglierla e mantenerla, o ne abbia le possibilità, non esistendo alcun obbligo in tal senso (LMA A §33).

Altrimenti, per sfuggire ad una totale indigenza, può divenire schiava o prostituta, oppure cercare rifugio nel tempio, a prezzo, però, della perdita della libertà, e quindi della possibilità futura di contrarre matrimonio con un uomo libero. Se già schiava di privati, può continuare a godere della protezione del padrone, alla cui morte può sempre trovare un riparo nel tempio. Nei testi neo-babilonesi è più volte documentato il caso di donne vedove che entrano nel bœt mår bånœ, letteralmente «la casa dell’uomo libero». Questo luogo è stato interpretato da Martha Roth come un’istituzione specificamente volta al sostegno delle vedove indigenti.

.semiramide e le sue dame
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Sulla base di nuovi testi dove esso compare in relazione a bambini, van Driel ritiene, invece, che l’espressione «entrare nel bœt mår bånœ» sia da interpretare letteralmente e indichi la possibilità, per donne e bambini in stato di indigenza, di entrare nella casa di un qualsiasi uomo libero per servirlo, oppure, nel caso di donne, anche per sposarlo; eventualità, quest’ultima, preclusa a coloro che non hanno più lo status di donne libere.

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Si tratta quindi, in ogni caso, di una possibilità per la donna vedova di far fronte alla povertà, senza essere costretta a perdere la libertà ricorrendo come ultima ratio al sostentamento del tempio. Accanto alle vedove indigenti o pie, vi è comunque una nutrita schiera di vedove benestanti o addirittura ricche, come la Giuditta del testo biblico, cui il marito lascia oro, argento, schiavi, bestiame e terre. Sulla base di alcuni documenti del III millennio a.C., è stato addirittura ipotizzato che nel diritto ereditario sumerico, diversamente da quello paleo-babilonese, per esempio (cfr. CH §170 ss.), la vedova, salvo diverse disposizioni testamentarie, avesse anche più diritti dei figli sul patrimonio del marito.

Così, la vedova Geme-Suena cita in giudizio con successo il cognato Alala rivendicando l’eredità del marito defunto: proprietà terriere e immobiliari, dieci schiavi maschi e quattro femmine, una portantina, più numerosi oggetti.

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Successivamente, Nel mondo accadico, invece, la vedova generalmente non ha alcun diritto sull’eredità del marito, a meno che questi non lasci disposizioni testamentarie in tal senso. In mancanza di dote o controdote, però, può venirle assegnata come corrispettivo una quota di eredità (LB §12); altrimenti il suo mantenimento ricade sui figli (LMA §33).

È la dote, infatti –unica sua inalienabile proprietà– che costituisce la sua garanzia certa per la vedovanza (CH§171 e 172) o il divorzio, spesso accompagnata dalla controdote assegnatale dal marito a questo fine. La dote costituisce, appunto, un tipo di proprietà soggetto a regole specifiche di gestione e trasmissione, stabilite principalmente per dare sicuro sostentamento alla vedova.

Durante il matrimonio confluisce nel patrimonio del marito, ma da vedova, o in caso di divorzio, la donna ne riguadagna il controllo. Può usarla come fondo per ricevere delle entrate dirette, o darla o prometterla in eredità ai figli, come incentivo per il suo mantenimento da parte di questi. La donna ha maggiore discrezionalità sulla sua dote di quanta non ne abbia il marito sul suo patrimonio e, secondo Westbrook, il carattere giuridico dei beni dotali risulta più vicino a quello di un fondo di assistenza sociale che ad una proprietà familiare.

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Alla morte della donna essi vengono divisi fra tutti i suoi figli, anche quelli di eventuali ulteriori matrimoni; in mancanza di figli, possono sempre tornare alla sua famiglia di origine. In ogni caso non sono reclamabili da parte della famiglia del marito o dai figli che questi ha eventualmente avuto da un’altra donna o moglie. La vedova con figli gestisce il patrimonio del marito rimanendo nella sua casa. E qui gode per lo più di un ruolo analogo a quello del marito defunto. Nei numerosi testamenti provenienti dalle regioni della Mesopotamia settentrionale e occidentale, il marito conferisce alla moglie la patria potestà sulla sua casa e sui suoi beni con l’espressione: «ho stabilito mia moglie come padre e madre della mia casa». Altrimenti la vedova può decidere di risposarsi;

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in tal caso, però, deve solitamente rinunziare ad ogni bene della casa del marito ed uscirne soltanto con la sua dote. Spesso, tuttavia, la decisione della vedova di risposarsi con qualcuno di sua scelta, soprattutto in mancanza di figli con il primo marito, è osteggiata da parte dei familiari di lui, che tentano di dirottarla su proposte di matrimonio interne alla famiglia stessa, a tutela della discendenza e del patrimonio.

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In alcuni casi, se la donna viveva in casa del suocero, questi può continuare ad esercitare su di lei la sua potestà alla morte del marito. Tuttavia, l’istituzione del levirato, ben nota dal mondo biblico, non pare attestata in Mesopotamia.

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Fra i pochi articoli delle Leggi Medio Assire interpretati come riferibili ad un simile costume –LMA A §30, A §33, A §43–, l’unico che potrebbe realmente prestarsi ad una simile interpretazione è LMA A §33, ma la lacunosità del testo e l’assenza di altri riferimenti ad una simile pratica la rendono molto dubbia.

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La garanzia di una discendenza e la conservazione del patrimonio all’interno della famiglia sono anche alla base di disposizioni testamentarie abbastanza particolari,

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in cui il testatore stabilisce che la moglie vedova può conservare i suoi diritti sul patrimonio di lui, anche se si risposa con uno straniero, purché questi sia una persona rispettabile e disposta ad entrare nella casa del primo marito; i loro figli verranno, così, considerati figli del primo marito; nel caso in cui ella, invece, esca dalla sua casa per seguire un altro uomo, perderà il patrimonio del marito. In mancanza di figli, la vedova che non si risposa può comunque condurre la sua vita con una certa indipendenza, restando nella casa del marito e garantendosi il futuro con la pratica dell’adozione. Come accennato, la pratica monogamica costituisce quasi la regola nella società mesopotamica. Tuttavia, sovrani e alti funzionari di corte si discostano nettamente da questo modello praticando diffusamente la poligamia. In una struttura familiare poligamica con un grande numero di appartenenti femminili con status diversi, è quasi inevitabile che il membro femminile più importante sia la madre del capo-famiglia.

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Così, all’interno della famiglia reale, troviamo ad occupare il ruolo femminile dominante una vedova, la regina madre, molto spesso la persona più potente del regno, dopo il re, suo figlio. Ella svolge un ruolo chiave nel collegamento fra due generazioni di regnanti. È solo alla morte della regina madre che la regina può solitamente acquisire il ruolo di prima donna del regno. E se, per lo più, le regine madri esercitano il loro potere principalmente nella sfera amministrativo-commerciale e religiosa, non mancano, un po’ in tutto il Vicino Oriente Antico, esempi di regine madri arrivate ad esercitare un rilevante potere politico. Alcune di loro, dopo essere riuscite a far legittimare dal marito il figlio da loro scelto come erede al trono (spesso assai giovane di età, e non primogenito),

si trovano a regnare al suo fianco, talvolta come vere reggenti.

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È stato, tuttavia, giustamente sottolineato come per ciascuna di queste figure la pur indiscutibile influenza esercitata non possa prescindere dal prestigio conferito dallo status di moglie o madre del sovrano maschio.

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Anche per Shammuramat (Semiramide), figura storica passata alla leggenda, è stata definitivamente esclusa l’ipotesi che abbia mai regnato da sola; anche se di fatto è lei che, dopo la morte del marito, Shamshi-Adad V, tiene le redini del regno accanto al figlio Adad-nirari III.

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Per quanto potenti, dunque, queste donne non hanno la possibilità di accedere ad un effettivo potere politico indipendente, restando sempre subordinate alla legittimazione –anche se spesso puramente formale– di un marito o di un figlio.

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Verso la vecchiaia La fase di avanzata maturità della donna sfuma senza apprezzabile soluzione di continuità nella sua vecchiaia, focalizzandone come problema nodale e caratterizzante quello, più generale, della cura degli anziani.

Una parte rilevante della documentazione è costituita da testi di tipo giuridico, per lo più testamenti e contratti di adozione. Si tratta, tuttavia, di costruzioni transitorie, risultato di situazioni particolari che non documentano la normale prassi. Come avviene infatti, ad esempio, per i contratti matrimoniali, la redazione di un atto in forma scritta riflette generalmente l’esigenza di fissare clausole o volontà che contravvengono o modificano in qualche modo la consuetudine del diritto non scritto normalmente seguita. I testi concernenti la cura degli anziani riflettono quindi, per lo più, circostanze speciali in cui la funzione non risulta garantita dalla normale legislazione familiare. L’unica possibilità di ricostruire la cornice teoretica mancante che li ha prodotti è, tuttavia, quella di basarci essenzialmente su di essi.

Fortunatamente, a partire dalla piccola casa di abitazione o da un fazzoletto di terra, la proprietà è abbastanza diffusa in ambito mesopotamico, dove non costituisce affatto l’appannaggio esclusivo degli strati più alti della società.

Restano, tuttavia, totalmente escluse le classi dei nullatenenti. La visibilità di questi ultimi, legata quasi esclusivamente ai testi amministrativi, risulta per lo più limitata al periodo di esercizio delle loro funzioni lavorative, con la conseguenza di una pressoché totale perdita di visibilità nell’ultima fase della loro vita. E il problema è ancora più fortemente sentito nel caso delle donne, meno sistematicamente inserite nel mondo del lavoro esterno alla famiglia, rispetto all’uomo.

Anche per questa fase non abbiamo riferimenti ad un’età definita. È molto probabile che in caso di malattia la ridotta possibilità di cure portasse abbastanza rapidamente alla morte, limitando il periodo di dipendenza totale dell’anziano. In ogni caso, il problema maggiore era rappresentato dall’assenza di figli, di coloro, cioè, naturalmente e unanimemente ritenuti responsabili della cura degli anziani. 131 La struttura familiare si presta in maniera ottimale all’assolvimento di questa funzione. Secondo Westbrook,

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