DOPO GADDAFI

September 14, 2021
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Il caos

La cattura ed esecuzione di Muammar Gheddafi (ottobre 2011) con il determinante concorso di Parigi, Londra e (suo malgrado) Roma, previa «leadership da dietro» americana, ha avviato una dinamica destrutturante – flusso di armi e miliziani, frazionamento istituzional-territoriale, conflittualità endemica – che da allora investe la regione saheliana. Una dinamica che vede cadere, come tessere, tutti i paesi – Mali, Burkina Faso, ultimo il Niger – su cui Francia e Italia (più di altri) avevano puntato in chiave di stabilizzazione delle confinanti aree maghrebina e subsahariana.

Il Niger, sotto questo aspetto, appare la chiave di volta capace di far crollare l’intero, traballante edificio, portandosi dietro i nostri interessi strategici. Interessi che, ieri come oggi, sono sintetizzabili nel binomio risorse-migranti.

SENZA GHEDDAFI NEL SAHEL CAMBIA TUTTO

La guerra civile in Libia ha aperto vecchie e nuove ferite nel Sahara. L’accelerazione delle tensioni climatiche, economiche, demografiche e politiche nell’arco d’instabilità regionale. Il ruolo del Colonnello nei flussi migratori. Chi perde dalla ‘primavera araba’.

Il crollo del regime di Gheddafi ha creato enormi pressioni economiche e demografiche sui governi della regione, soprattutto nel Sud.

Questa crisi dovrebbe essere analizzata nel contesto più ampio di altre crisi africane in corso, come il colpo di Stato in Mali, la grande scarsità di alimenti in Ciad, il conflitto in Dārfūr o l’espansione delle cellule di al-Qā‘ida. La caduta del dittatore libico assume una particolare importanza se letta nella prospettiva dei problemi economici, demografici, migratori e di violenza della regione. Il rischio di spillover dei conflitti in altre parti del continente, in cui equilibri etnici e confessionali sono molto fragili, potrebbe essere aumentato sensibilmente.

l’ISIEME DELLE VARIABILI ESPLOSE NEL sAHEL CON L’OMICIDIO DI gHEDDAFI servono a mostrare come l’insieme di queste variabili metta alla prova i limiti della flessibilità degli Stati della regione. Il degrado ambientale e i flussi migratori potrebbero approfondire l’insicurezza, con implicazioni geopolitiche che andrebbero ben oltre i confini di questo arco, minacciando anche la sicurezza nel Nord del Mediterraneo.

Diversi autori stimano che nel 2050 il numero di potenziali rifugiati ambientali oscillerà tra i 50 e i 250 milioni2. In questo acceso dibattito la regione del Sahara-Sahel gioca un ruolo fondamentale. Qui le conseguenze del cambiamento climatico si collegano a indici di povertà particolarmente elevati, migrazioni, conflitti di lunga durata e fragilità politica. Ad esempio, paesi come Senegal e Sudan potrebbero perdere più del 50% delle proprie capacità agricole, il Mali dal 30 al 40%3.

L’arco di tensione

SI REGISTRA A QUESTO PUNTO UN ARCO GICANTESCO TESO E MORTALE RIVOLTO VERSO CHI?


L’arco inizia in Nigeria, lo Stato più popoloso dell’Africa. Nella parte settentrionale del paese è in atto un processo di desertificazione e la produttività rurale diminuisce sempre di più. Questo fenomeno ha già fatto scomparire 200 villaggi, provocando uno spostamento verso il cuore del paese di gruppi di migranti in cerca di nuove opportunità nei centri urbani. Considerando che la pressione demografica è molto forte e che il fenomeno migratorio è visto come un sistema di promozione socio-economica, la mobilità umana sommata al cambiamento climatico è tra le cause che minacciano la governabilità, tanto a livello nazionale che internazionale.

Il Niger, seconda componente dell’arco di tensione, è interessato da queste dinamiche, essendo molto vulnerabile a livello demografico e ambientale. È infatti il secondo paese al mondo per indici di fertilità, ma allo stesso tempo la sua terra coltivabile si è ridotta drasticamente negli ultimi cinquant’anni. Per esempio, a causa della siccità del 2010 oltre 7 milioni di persone hanno sofferto la carenza di cibo, una situazione probabilmente destinata a peggiorare.

Per la sua posizione geografica, il Niger si trova anche all’incrocio di diverse rotte migratorie nazionali e internazionali. In particolare, la città di Agadez nel Nord del paese costituisce uno dei punti più caldi all’interno dell’arco di tensione: solamente nel 2003 circa 65 mila migranti subsahariani hanno percorso queste vie diretti in Algeria e in Libia 4. Il quadro si complica ancora di più se teniamo conto che a nord di Agadez si trova la seconda più grande miniera di uranio del mondo e che la gestione di queste risorse ha scatenato diverse ribellioni tuareg. Traffico di droga e contrabbandi vari, attività terroristiche legate alla presenza dei qaidisti e lo sconfinamento di ribelli dal vicino Mali non contribuiscono certo a pacificare la zona.

L’Algeria è il terzo paese dell’arco. Qui il cambiamento climatico gioca un ruolo decisivo, dovuto principalmente al fatto che il paese è secondo in Africa per scarsità di acqua e progressione della desertificazione. Inoltre, la variabilità del clima nell’Africa subsahariana può influenzare indirettamente anche l’Algeria, contribuendo alla migrazione lungo l’arco di tensione e lungo altri percorsi migratori.

La lenta ma progressiva desertificazione dei confini meridionali del Sahara ha già contribuito all’aumento della migrazione stagionale dall’Africa sub-sahariana verso l’Algeria e il Maghreb in generale. Inoltre, la violenza che ha caratterizzato l’Algeria nel corso degli anni Novanta e il successivo consolidamento dei qaidisti nelle regioni meridionali hanno approfondito questa instabilità, che ha provocato circa mille episodi di violenza politica dal 2001 in poi.

L’arco di tensione termina in Marocco. Come nel caso algerino, la cronica carenza d’acqua rappresenta un grave problema per il paese. Questo elemento, insieme a una potenziale diminuzione del 20% delle precipitazioni nei prossimi decenni, ha e avrà serie conseguenze su un settore agricolo che occupa oltre il 40% della popolazione.

I cambiamenti climatici potrebbero causare una migrazione interna, costringendo le popolazioni rurali a spostarsi in cerca di terra fertile, erodendo così la separazione geografica tra i diversi gruppi etnici che popolano questi territori.

Per quanto riguarda invece i flussi migratori internazionali, anche il Marocco è sotto pressione: la sua condizione di paese di destinazione, ma soprattutto di transito verso l’Europa, ne fa una zona dove potrebbero svilupparsi conflitti socio-politici. Di questo potenziale disagio marocchino potrebbero approfittare gruppi terroristici operanti nella regione, causando un’ulteriore destabilizzazione.

 

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Barack Obama ha affermato che il più grande errore della sua presidenza è stata la mancanza di pianificazione delle conseguenze della cacciata di Muammar Gheddafi dalla Libia, che ha lasciato il paese sprofondato nel caos e minacciato da estremisti violenti.

Riflettendo sulla sua eredità in un’intervista alla Fox News andata in onda domenica, Obama ha detto che il suo “peggior errore” è stato “probabilmente non aver pianificato il giorno dopo quella che ritengo sia stata la cosa giusta da fare, intervenendo in Libia”.

 
 
 
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Obama ha ammesso che l’intervento “non ha funzionato”.

Lunedì il portavoce della Casa Bianca Josh Earnest ha affermato che il rammarico di Obama si estende a ciò che “gli Stati Uniti e il resto dei membri della nostra coalizione non hanno fatto”.

“Il presidente ha cercato di applicare questa lezione nel considerare l’uso delle armi e di altre circostanze”, ha detto Earnest.

“Ci si chiede quale situazione prevarrà e quale tipo di impegni saranno richiesti dalla comunità internazionale dopo che l’intervento militare sarà stato ordinato dal comandante in capo”.

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