Crimini Fascisti

June 10, 2023
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Una storia sporca, Nascosta


Il colonialismo Italiano è un momento della storia Italiana POCO CONOSCIUTA, soprattutto perchè per molti anni si è operato un costante insabbiamento degli aventi più crudeli


L’Italia ha avviato il perido della colonizzazione senza una strategia certa; spinta solo dal desiderio di imporsi come grande Potenza Europea. Poi L’Italia Brava gente, come tutti ha avviato il periodo del profitto e della sopraffazione. La repressione, il razzismo, le espropriazioni, sono stati utlizzati dal Regime Fascista , dagli Italiani, più e peggio deggli altri paesi Coloniali.


Tuttavia a differenza di altre nazioni, dove è stata coraggiosamente affrontata una seria riflessione sul passato coloniale, l’Italia si è sottratta a questo obbligo; anzi ha favorito la rimozione delle colpe coloniali, con palesi falsificazioni, che hanno ostacolato la ricerca storica. Questo spiega perché ancora oggi, a sessantanni dagli avvenimenti, si accendano roventi polemiche sull’utilizzo o meno dei gas in Etiopia, e non accenni a tramontare il mito degli “italiani brava gente”.


In Africa l’Italia ha perso una grande occasione. Poteva ritornare in
Africa per riparare con generosità i suoi torti e per
svolgervi, con le capacità che nessuno le disconosce, una proficua collaborazione. Invece ha dilapidato ingenti capitali, ha puntellato abiette dittature, ha costruito cattedrali nel deserto, ha aggiunto, alle vecchie, nuove ingiustizie, e non ha neppure finito di onorare i suoi debiti, come testimoniano il contenzioso con la Libia e la mancata
restituzione dell’obelisco di Axum.

Uno dei momenti più spregevoli della colonizzazione fascista è conseguente ai bombardamenti aerei con il disinvolto utilizzo delle armi chimiche. Tali massacri vengono descritti e documentati con estrema precisione, grazie a un approfondito lavoro di raccolta e analisi delle fonti, non solo degli studi dei due storici Angelo Del Boca e Giorgio Rochat, ma anche dei documenti governativi del periodo, desecretati solo negli anni ’90. Il racconto della guerra d’Abissinia procede con un ritmo serrato e un tono concitato, come se si trattasse di una partita di Risiko: e questo era proprio il modo in cui la guerra doveva essere percepita in Italia, un conflitto disumanizzato perché lontano e soprattutto perché diretto contro i “negri incivili”, un popolo considerato inferiore, che dovevamo civilizzare.

Le stesse Armi chimiche, l’utilizzo per la prima volta in una guerra di gas ed armi chimiche, è stato ripetuto con maggiore durezza in Libia. Si arrivò a comandare ai piloti dei nostri aerei di bombardare qualsiasi cosa in movimento, compreso i bambini. Lo scopo era quello di terrorizzare la gente, I PADRONI DI CASA, in ogni modo. In Libia si stima che 100.000 persone su una popolazione di 800.000 siano morte a causa dell’occupazione italiana della Libia in questo periodo, di cui 40.000 nei campi: queste proporzioni sono vicine a quelle di un genocidio.


Una Poesia racconta l’umiliazione dei prigionieri di Aguila, “stomaci vuoti”, “fustigati in pubblico”, che possono “a malapena stare in piedi”. Il poeta, “un torrente di lacrime che scorre / lungo la (sua) barba bianca”, racconta la perdita della sua “dignità in età avanzata”, dovendo obbedire ai suoi carcerieri “come una donna / in difetto e in colpa”. Lamenta la perdita dei “nostri uomini migliori / il nostro bene più prezioso”, “i nostri giovani”, “raccolti / come datteri maturi”, “il fiore delle nostre famiglie”. Denuncia “le torture inflitte alle nostre figlie / i loro corpi esposti nudi”. Prima di concludere con la morte di Omar al-Mokhtar: “Dio solo è eterno / una luce si è spenta”. Quanto a Rajab, morì tra il 1950 e il 1952, solo e dimenticato.

IL CRIMINALE GENERALE GRAZIANI


Ottantaquattro anni fa, su disposizione di Mussolini, ci riuscirono – così per dire – il maresciallo Badoglio e il criminale di guerra Rodolfo Graziani. Prima raccolsero le popolazioni nomadi, giustamente considerate sostenitori della resistenza libica, in quindici grandi campi di concentramento nella Sirtica.

Contemporaneamente – come raccontai in Genocidio in Libia (pubblicato nel 1979 e ristampato da ManifestoLibri nel 2005) – tirarono fuori da vecchi magazzini una certa quantità di bombe all’iprite. Ossia ordigni caricati con quello stesso gas (proibito allora come oggi) che Isis e altri stanno usando in Iraq e forse in Siria. “Nel 1928 erano in corso le cosiddette ‘operazioni del 29° parallelo’, una vasta azione bellica che aveva tre scopi principali dichiarati: unificare la Tripolitania e la Cirenaica divise dalla ribellione delle popolazioni della Sirtica, occupare militarmente una catena di oasi – Gife, Socna, Zella, Marada, Augila, Gialo – sul 29° parallelo e tentare di consolidare l’effettivo dominio politico militare italiano sui territori a nord”. “Il 6 gennaio 1928 De Bono inviava al Ministero delle colonie questa breve relazione: ‘263 Op. U.G./Segreto/Novità giorno/Marce colonne proseguono regolarmente. Stamane, come stabilito, quattro Ca 73 e tre Ro hanno bombardato Gife con evidente distruzione. I quattro Ca 73 si sono spinti circa settanta chilometri sud Nufilia bombardando anche a gas circa quattrocento tende'”. Vale la pena leggere qualche riga di una relazione trovata negli archivi del ministero degli Esteri.

Era diretta al Comando generale dei carabinieri da un ufficiale dell’Arma che aveva interrogato un testimone sugli effetti di un’altra incursione aerea con i gas sull’oasi di Taizerbo. “Seppe che quali conseguenze immediate vi sono quattro morti. Moltissimi infermi invece vide colpiti dai gas. Egli ne vide diversi che presentavano il loro corpo ricoperto di piaghe come provocate da forti bruciature. Riesce a specificare che in un primo tempo il corpo dei colpiti veniva ricoperto da vasti gonfiori, che dopo qualche giorno si rompevano con fuoruscita di liquido incolore. Rimaneva così la carne viva priva di pelle, piagata. Riferisce ancora che un indigeno subì la stessa sorte per aver toccato, parecchi giorni dopo il bombardamento, una bomba inesplosa…”.

Peggio In Etiopia

Ma la Libia è soltanto l’inizio. In Etiopia sarà molto peggio. Nella guerra dichiarata da Mussolini nel 1935 contro il regno del Negus, Graziani dirige le operazioni militari sul fronte meridionale. Per la propaganda fascista è un’epopea. Si magnificano le vittorie riportate. Si insignisce il “valoroso combattente” dei titoli di Maresciallo d’Italia e duca di Neghelli. E si sorvola su un piccolo particolare: l’autorizzazione, prontamente ottenuta dal “Duce”, ad utilizzare l’iprite, il gas tossico vietato dalla Convenzione di Ginevra, “contro le orde barbariche”. Graziani lo usa in numerose occasioni, provocando effetti devastanti. Badoglio, sul fronte settentrionale, farà altrettanto.

Il 9 febbraio del 1937 si svolge nel palazzo del vicerè una cerimonia in onore della nascita di Vittorio Emanuele di Savoia, primogenito del principe Umberto. Per l’occasione, Graziani ordina la distribuzione di due talleri d’argento ai poveri di Addis Abeba. Ed esce nel cortile del palazzo, insieme con gli invitati, per presenziare alla regalia. Appena è fuori, due giovani ribelli, Deboch Abraha e Moges Asgedom, lanciano contro il gruppo numerose bombe a mano. Il vicerè è ferito. Una miriade di schegge lo ha colpito nella parte destra del corpo. Ma, da quel momento ha inizio, nella capitale e in tutta l’Etiopia, una feroce rappresaglia che dura tre giorni e non risparmia donne, bambini, vecchi, religiosi. Quante sono le vittime della repressione? Almeno tremila, secondo le stime britanniche, trentamila secondo le fonti etiopiche, trecento, a giudizio del governo italiano. Certamente moltissime. E Mussolini si compiace telegrafica- mente con Badoglio per “l’inizio di quel radicale repulisti assolutamente necessario nello Scioà”.

Corre voce in quei giorni ad Addis Abeba che i monaci copti del convento di Debrà Libanos abbiano ospitato gli attentatori, ne siano in qualche modo complici. Una colonna guidata dal generale Pietro Maletti è incaricata della punizione. Nei centocinquanta chilometri di marcia di avvicinamento al monastero, gli uomini di Maletti incendiano migliaia di tucul e fucilano oltre duemila abitanti della zona. Raggiunto e circondato il monastero, i militari ricevono un telegramma di Graziani che ordina di “passare per le armi tutti i monaci indistintamente, compreso il vice priore”. Eseguono. I religiosi vengono schierati a scaglioni e falciati dalle mitragliatrici. Quante le vittime? Secondo le fonti ufficiali, 449. Secondo Angelo Del Boca, autore di numerose opere sul colonialismo italiano, tra 1500 e 2000. Il vicerè rivendicò “la completa responsabilità” della “tremenda lezione data al clero intero dell’Etiopia”.


I bombardamenti di oggi sono più precisi e mirati. Gli ordigni più sofisticati. Ma l’esperienza recente ci dice che sempre e ovunque oltre ai “ribelli” armati muoiono anche molti innocenti. E quando succederà in Libia, sicuramente qualcuno ricorderà ciò che le armate fasciste italiane fecero quasi un secolo prima.

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