Inanna Theosis

May 20, 2025
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La Teosi ( in greco antico : θέωσις ), o deificazione (deificazione può anche riferirsi ad apoteosi , lett. “rendere divino”), è un processo trasformativo il cui scopo è la somiglianza o l’unione con Dio , come insegnato dalle Chiese cattoliche orientali e dalla Chiesa ortodossa orientale ;

lo stesso concetto si ritrova anche nella Chiesa cattolica latina , dove viene definito ” divinizzazione “. In quanto processo di trasformazione, la teosi è provocata dagli effetti della catarsi (purificazione della mente e del corpo) e della theoria (‘illuminazione’ con la ‘visione’ di Dio).

Secondo gli insegnamenti cristiani orientali , la teosi è in gran parte lo scopo della vita umana. È considerata realizzabile solo attraverso la sinergia (o cooperazione) dell’attività umana e delle energie (o operazioni) increate di Dio.

Questo concetto si ricollega con l’espressione biblica “essere fatti partecipi della natura divina” come lo troviamo in 2 Pietro 1:4 “δι᾿ ὧν τὰ τίμια καὶ μέγιστα ἡμῖν ἐπαγγέλματα δεδώρηται, ἵνα διὰ τούτων γένησθε θείας κοινωνοὶ φύσεως ἀποφυγόντες τῆς ἐν τῷ κόσμῳ ἐν ἐπιθυμίᾳ φθορᾶς” e che riguarda la dottrina della santificazione. Il termine è stato utilizzato da Ireneo ed è oggi tipico della teologia dell’Ortodossia orientale.

Ma la  teosi non è esclusivamente orientale. È certamente anche cattolica romana, anche se non sempre arriviamo alle stesse conclusioni riguardo all’essenza e alle energie di Dio e alla natura della grazia. Argomenterei che la teosi è una dottrina nella stragrande maggioranza della cristianità, anche se alcuni la rifiutano esplicitamente. Dire che diventiamo più simili a Cristo, o più santificati, grazie al dono della grazia di Dio è proprio ciò di cui tratta la teosi.

Ora, per affrontare direttamente la teosi. Diventiamo per grazia ciò che Dio è per natura. Diventiamo fratelli adottivi di Cristo, possiamo partecipare alla natura divina, otteniamo amore, carità, modestia… tutte qualità di Dio. Dio si è fatto uomo affinché l’uomo possa raggiungere la divinità. Non significa che diventiamo dei uguali a Dio, o che smettiamo di essere creature. Significa che raggiungiamo lo scopo che Dio si aspettava originariamente da noi nel giardino di Eden, prima che il peccato ci distrasse e cambiasse la nostra traiettoria: per mangiare, in completa umiltà, del frutto della conoscenza del bene e del male, e poi mangiare del frutto della vita (che è Cristo stesso).

Per ricapitolare… Dal nostro battesimo al nostro ingresso in Paradiso, riceviamo la grazia di Dio che ci trasforma purificandoci dal peccato e dall’attaccamento al peccato, e rendendoci sempre più simili a ciò che Dio è.

Ma ritorniamo in Oriente, ai margini del Tigri e dell’Eufrate dove tutto è cominciato e ritorniamo al misterioso fascino di Inanna.  

Inanna, dea poliade di Uruk, non è una dea-madre. Inanna presiede alla vita e alla morte, è “Signora” – cioè dea –  della fecondità della natura, dell’amore erotico (non quello coniugale), della bellezza ma anche della guerra e delle tempeste.
Inanna, custode della regalità e impietosita dall’ignoranza del genere umano, che vorrebbe veder vivere in prosperità e benessere, dona agli/alle abitanti di Uruk i me – le “tavole del destino”

che garantiscono l’ordine universale – sottraendoli al dio Enki, che li custodiva lontano dagli umani, dopo che costui si era ubriacato mentre cercava di sedurla.

Dunque, Inanna dona alla sua città: l’eroismo, la potenza, il disonore, la rettitudine, il saccheggio delle città, l’intonazione delle lamentazioni rituali e la gioia di cuore; la falsità, il paese insorto, la pace, il percorrere dei viaggi e la sede stabile;

l’arte del falegname, l’arte del fabbro del rame, l’arte scrittoria, l’arte di lavorare i metalli, l’arte del sellaio, l’arte del gualchieraio, l’architettura e l’arte dell’intrecciare le stuoie; l’intelligenza, la conoscenza, i sacri riti purificatori, l’ammucchiare dei mucchi di brace ardente, l’ovile, il timore reverenziale, la tensione che obbliga al timore reverenziale e il tacere deferente;

l’accensione dei fuochi, lo spegnere i fuochi, il duro lavoro, la famiglia riunita; la lite, il grido di vittoria, l’arte del consigliare, l’arte di sapersi consigliare, l’emettere la sentenza e la distinzione.

In una parola: Inanna dona alle/agli abitanti di Uruk la civiltà che va definendosi, con tutte le sue contraddizioni ed esiti possibili. Inoltre, i me, materializzati e appesi alla cintura della “Signora” fanno parte degli elementi di cui Inanna si veste per attraversare confini (anche quello tra la vita e la morte), realtà, dimensioni differenti.


È, dunque, una divinità assai più complessa e dialettica rispetto, ad esempio, alle successive divinità femminili greche o latine.

Nelle tavole di argilla rinvenute nell’antico complesso templare dell’Eanna ad Uruk, risalenti al 3400-3000 a. C., troviamo la più antica attestazione del suo nome.
Con la rappresentazione del suo volto sul vaso di Uruk.

In esso troviamo il racconto figurato dell’incontro tra Inanna e il gran sacerdote, una ierofania, che testimonia il culto tributato alla dea.


L’evento culminante, cioè l’incontro tra la “Signora del cielo” e il sacerdote è presentato in cima, dunque il racconto rappresentato segue una logica a ritroso che è anche circolare, ad anello.

 

Nella bellissima Discesa di Inanna agli inferi in visita alla sorella Ereškigal, si narra come la dea sia condannata a morte dai giudici degli inferi. Non vedendola tornare dopo tre giorni, la divinità-ancella Ninšubur si attiva per riportarla alla vita; ma perché Inanna torni dagli inferi ci vuole qualcuno che la sostituisca laggiù. I Galla, una sorta di geni asessuati o demoni del destino, le propongono di mandarci la fedele Ninšubur, ma Inanna rifiuta e sceglie, invece, di mandarci Dumuzi quando scopre che lo “sposo”, malgrado la morte negli inferi della sua “Signora”, se ne sta soddisfatto sul trono, riccamente vestito, senza osservare il lutto.
Il legame solidale fra donne emerge qui con forza, a fronte di un nascente patriarcato cerca di costruire il proprio potere sulla morte della potenza femminile.

Gilgameš, eroe “di fiero splendore” per due terzi divino e per un terzo mortale, protagonista dell’omonima saga scritta intorno al 2599 a. C., rifiuta violentemente le profferte sessuali di Ištar dicendole

Tu saresti come un forno che non fa sciogliere il ghiaccio,
una porta sgangherata che non trattiene i venti e la pioggia,
un palazzo che schiaccia i propri guerrieri,
un elefante che strappa la sua bardatura,
pece che brucia l’uomo che la porta,
un otre che inzuppa l’uomo che lo porta,
calcare che fa crollare il muro di pietra,
un ariete che distrugge le postazioni nemiche,
una scarpa che morde il piede del suo portatore.
A quale dei tuoi amanti sei rimasta per sempre fedele?
Quale dei tuoi superbi fidanzati è salito al cielo?
Vieni! Ti ricorderò uno per uno i tuoi amanti,
quelli che tu hai ardentemente posseduto.

La lista degli uomini che, dopo aver trascorso con lei la notte, non sarebbero sopravvissuti fino al mattino successivo, comincia da Dumuzi, a cui Ištar avrebbe “decretato il pianto anno dopo anno” mandandolo agli inferi.
Gilgameš rappresenta l’affermarsi dell’ordine patriarcale guerriero, che pretende di disciplinare i comportamenti femminili e che

si mostra superiore, tiene la sua testa alta come un toro selvaggio;
egli non ha rivali, le sue armi sono sempre sollevate
e al suono del suo pukku (tamburo) debbono accorrere i suoi camerati.
[…] Giorno e notte il suo comportamento è oppressivo

Addirittura, nell’enumerare ad Ištar la lista dei suoi amanti morti, cita anche il giardiniere Išullanu il quale, secondo gli inni dedicati ad Innana, aveva abusato della dea mentre stava dormendo. Gilgameš, però, accusa la dea di aver sedotto il giardiniere – con un invito esplicito: “stendi la tua mano, portala sulla mia vulva” – per poi bastonarlo e mutarlo in talpa. Ed ecco, quindi, il patriarcato che rovescia la donna violata in responsabile della violenza che ha lei stessa subito.

Che Gilgameš rappresenti il potere patriarcale lo confermano anche la sua alleanza con Enkidu – uomo primordiale creato dagli dei come controparte di Gilgameš per contrastarne l’arroganza, ma che ne diventerà, poi, carissimo amico e amante –  e l’ossessionata ricerca dell’immortalità, su cui, però, non posso ora soffermarmi.

Mi interessa, invece, rilevare come Gilgameš sia spesso rappresentato mentre domina un leone.

Il postvittimismo e l’autodeterminazione hanno bisogno di un immaginario liberato da dispositivi di vittimizzazione e sottomissione. Le donne kurde del Rojava ci stanno ampiamente dimostrando che questo è possibile, e lo dimostrano tanto come combattenti quanto col loro fondamentale contributo nella costruzione di una comunità altra e di una nuova umanità – che è, probabilmente, quello che ci vogliono trasmettere affermando “Noi non abbiamo mai perso la voglia di essere madri, ma questa maternità, questo amore, è per tutti i bambini, per l’umanità”.

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